Trevor Rabin

Rio

Alla fine un album solista non strumentale è venuto fuori, l’ultimo vocalizzato è del 1989 (‘Can’t look away’). Il sudafricano chitarrista/tastierista/cantante, ex degli Yes, ha pubblicato questo disco dandoci finalmente il dono della sua voce che non è niente male.

Ricordiamo che la fama del musicista americano deriva soprattutto dall’essere stato membro della band Progressive britannica più tecnica al mondo. E anche qui si sottolinea sempre quanto sia virtuoso tecnicamente questo artista, ma anche le idee prodotte sono di spessore e meno male, e il pensiero va alle ultime cose degli Yes che non sono frizzanti come questo attuale di Rabin. La sua carriera si è spostata, dopo gli Yes, alla produzione di colonne sonore, ma il quando si ha un grande potenziale non ci può porsi in un confine stretto. Eccolo allora uscire quest’anno 2023 con un disco eclettico e nello stesso tempo normale, perché le trovate sono fuori dalle righe ma anche in un certo senso tradizionali considerando la storia del rock. In lui si sentono tante reminescenze alla Yes, talvolta anche molto spinte e però queste cose alla Yes vanno interpretate come anche una sua specificità artistica di sua proprietà, in quanto si tratta di una sonorità Yes diversa da quella anni settanta, cioè una sonorità apportata proprio da Rabin; è stato Rabin a portarla nel gruppo e ora se la riutilizza non è altro che riusare sé stesso di quel momento.

La luminosa ‘PUSH’ è uno splendido quadro arioso, ed è appunto uno dei momenti più alla Yes, voce e arrangiamento compresi; stacchi, salti e giravolte che ricordano perfettamente tante cose del passato, ma assemblate qui in maniera frizzante per essere una delle migliori tracce del full-lenght. Con più dolcezza e tranquillità si dipana ‘PARADISE’, leggera nello spirito, ma elegante e densa per costruzione sonora; e la sua minore stranezza rispetto ad altre cose dell’album, non la fa per questo meno interessante; grazie alla melodia, ai suoni, all’assolo suadente e ad un finale gioco di voci che in qualche modo è qualcosa connaturale all’artista, il pezzo prende spessore e offre soddisfazione. Del resto un tale gioco canoro c’era anche nell’album degli Yes ‘90125’ in ‘Leave it’ che lui contribuì a scrivere insieme a Squire e Horn. Non accetta di normalizzarsi ‘THANDI’ che frigge con la chitarra e poi si calma col cantato che talvolta sembra ispirarsi al Paul McCartney dei Wings; ma quando arriva l’assolo feroce della chitarra speed allora capiamo che anche dal versante hard il musicista potrebbe tirare fuori ben più di un coniglio corridore come questo, senza contare che vengono aggiunti anche altri frammenti schizzati.

Due episodi ci fanno ridere e divertire ma ci fanno al contempo capire quale sia la sua classe, inserita nel periodo e nella tradizione degli USA. Il primo è il countryeggiante ‘GOODBYE’, un prezioso e veloce momento di virtuosismo spinto, ma non vuole starsene a plagiare l’antico, e così ci infila un ritornello più pop  che fa da stacco fra un momento folk e l’altro; se vi viene di muovere il piede e battere le mani, non vi preoccupate, la frenesia del brano è contagiosa. Il secondo attacco funny si ha con ‘TOXIC’ che invece fa il verso all’antica fiamma blues-rock, ma imbastardendola con suoni sporchi e poi con passaggi saltellanti che la rendono moderna; ma quando parte il ritmo rock’n’rollin’ l’americanità prende piede in maniera così dinamica che ancora una volta si deve battere il piede e dondolare la testa, e su di esso si staccano stilettate soliste dal blues vibrante che quasi potrebbe essere adatto ad un duetto con Joe Bonamassa. Forse ciò che appare meno valoriale, ma comunque sempre elegante e affascinante, e assolutamente da ascoltare, è la parte dedicata alle ballate: ‘Tumbleweed’ che ad un certo punto sfiora localmente i Beatles, ma dove la cosa migliore è la chitarra fluida; ‘These Tears’ che possiede una vocalità parzialmente Pink Floyd per evocare una atmosfera similare a certe cose realizzate da quel gruppo. Non pezzi eccelsi ma che hanno gusto e grazia. L’impressione che se ne ha, è che queste parentesi non siano conclusive, lasciate un po’ a metà, senza una vera e propria evoluzione.

L’album è una ricca tavolozza di colori. In mezzo ai momenti più soavi immette anche toniche elettricità, passaggi stranianti, distorsioni e dissonanze, non lesinando mai in accentazioni apparentemente esagerate, che fanno diventare eccentriche alcune tracce. Se gli Yes sono spesso l’anima della festa, ciò che viene suonato non si riduce a questo, c’è molto altro e bisogna saperlo riconoscere tra le righe. Una cosa bisogna assolutamente sottolineare, la sua grandezza nella storia  del rock è incontestabile anche se molti non se ne rendono conto. Parliamo di uno, come abbiamo già accennato, che ha innovato rinnovando gli Yes, cioè che ha contribuito al successo ottantiano di uno dei dieci gruppi più nobili del rock con i quali ha inciso ben quattro full-lenght (fino al 1994). Nella composizione di tutte e nove le tracce di ‘90125’ del 1983, appunto il primo con loro, compare la sua firma insieme a quella di altri. Essendo tale disco una evoluzione che vedeva una netta differenza con i lavori precedenti ad esso, è logico doverne dare il merito anche a Rabin. E quel merito ha reso brillante la carriera dell’uomo anche se in ranghi non propriamente di iconica star. Questo disco ce lo dimostra.

Roberto Sky Latini

 

Big Mistakes
Push
Oklahoma
Paradise
Thandi
Goodbye
Tumbleweed
These Tears
Egoli
Toxic

Trevor Rabin – vocals / guitar / bass / keyboards
Lou Molino – drums
Dante Marchi; Liz Constantine – backing vocals