QUEEN

I

Cinquantennale di esordio di una band che anni dopo risultò d’oro nel mondo culturale musicale e nel mercato mainstream. Tutti conoscono i Queen, la band personalissima del rock che ha fatto breccia trasversalmente su tutta la popolazione mondiale di fruitori che ascoltano musica per passione o anche solo per moda.

Eppure solo parzialmente sono stati innovatori, non hanno inventato né il rock, né il metal, né la disco, né il pop; però hanno riletto il tutto con grande maestria, in una maniera tale da non poter essere  superati dal punto di vista iconico da nessuno. Se guardiamo l’innovazione come creazione di un genere, uno solo è l’input nuovo in riferimento ad esso, ed è quello riconducibile al grado sinfonico che sono riusciti a immettere nell’Hard Rock; ma in realtà non l’hanno sviluppato in tutte le sfaccettature come hanno fatto poi decenni dopo i Nightwish o gli Epica diventando appunto esempi di grande “Symphonic Metal”. I Queen sono comunque una novità perché il modo di scrivere è strettamente il loro, riconoscibilissimo e peculiare in senso massimale. Merito maggiore va a cantante e chitarrista, ma tutti e quattro hanno ben contribuito. Il primo disco, pubblicato il 13 luglio 1973 (in America solo il 4 settembre) fu un ottimo lavoro, qualità presente e personalità evidente, anche se rispetto alla carriera successiva si sentono bene e di più, derivazioni nette prese dai grandi dell’appena precedente passato.

L’anthem ‘KEEP YOURSELF ALIVE’ è uno splendido pezzo hard, uno dei più potenti della discografia dei Queen. Qui il gruppo non è ancora l’emblema che sarà ma già con questa prima traccia si comprende che la band è capace di impatto e che la voce non è di un timbro comune, riuscendo anche ad essere giusta per la musica dura. Il riff distorto, il drumming, e l’assolo non fine a se stesso, sono ficcanti; canta Mercury ma la voce del batterista col suo tono roco è uno stacco che amplifica la variabilità preziosa di un modo colorato di intendere il rock. Il pezzo calmo ‘DOING ALL RIGHT’ è una ballata a metà, perché la sofficità evanescente lascia il posto ad un crescendo effervescente; la sinuosità delicata della voce qui passa da una forma piena ad una in falsetto, accompagnata da una chitarra molto classicheggiante che poi appunto esplode in una riffica potente e in un ritmo irrefrenabile che velocizza la traccia per poi tornare alla dolcezza, prima di una nuova irruenza che sostiene un tipico assolo anni settanta, e questa contrapposizione suona molto progressive per una eleganza che testimonia la raffinatezza ideativa in potenziale.

La ruvida ‘Great King Rat’ anticipa la dimensione più epica e narrativa che apparirà nel secondo full-lenght, quello dell’anno dopo; il ritmo inizialmente non propriamente rock è però di un incedere ficcante che rende l’idea compositiva piuttosto possente, poi arriva una sezione centrale interlocutoria che vede la band usare le sue abilità di variazione sul tema, e poi il finale che  fende l’aria con una vena hard davvero insistita sia con la voce che con il riffing, e anche con l’assolo che amplia il quadro espressivo della traccia aggiungendo irruenza. Con ‘My fairy King’ viene fuori quella vena barocca della band che sfocerà nel 1975 con ‘Bohemian Rhapdsody’; certo parziale ma la traccia non può essere considerata un semplice embrione di quella caratterizzazione perché il brano risulta esaustivo, completamente riuscito nella sua completezza ed esuberanza, tra dolcezza e frizzante dinamismo. La forte ‘LIAR’ è Led Zeppelin style! Quanto i fondatori dell’hard rock siano ispiratori dei Queen qui è palesemente esplicitato, il riff non è concepibile senza pensare a Jimmy Page, anche se poi il cantato, grazie alla perfetta diversificazione di un Freddy Mercury ispirato, dona un’aurea più enfatica, ma se i Queen negli anni ottanta portarono in sé disco-music e pop, in questa canzone lo spirito è semplicemente e superbamente hard, ancorato al periodo storico in cui vive, sebbene il ponte vocale con coro di sostegno immette anche un sound rythm and blues, ma gestito perché diventi puro rock anch’esso. La sublimità torna con ‘THE NIGHT COMES DOWN’ che trasporta col suo intro iniziale di chitarra acustica ai C.S.N.&Y, e la linea melodica arriva per essere sognante e farsi un po’ David Bowie, è il 1973 ed è l’anno dopo l’album ‘Ziggy Stardust’; non siamo ancora alle ballate superbe di ‘Love of my Life’ o ‘You take my Breath away’ però ne sentiamo già l’afflato.

In ‘Son and Daughter’ si immettono per la prima volta i cori bianchi, quelli che saranno utilizzati altre volte dai Queen, ma è l’episodio meno originale del disco, dove il giro chitarristico e del basso sono abusati pure per quegli anni, ricordando sia i Black Sabbath che gli Uriah Heep, e dove alla fine la linea del cantato non è che sia così accattivante pur essendo un buon brano. Un pezzo che può ricordare il musical ‘Jesus Christ Superstar’ lo si trova in ‘Jesus’, e non solo per il titolo ma soprattutto per l’incedere teatrale e per una coralità che si rifà ad una certa tradizione già ben codificata nel mondo rock, anche se poi la velocizzazione finale e l’assolo ne stravolgono la forma in maniera nettamente rockeggiante e pseudo-psichedelica. ‘Modern Time of Rock’n’Roll’ è un breve pezzo tirato di meno di due minuti che scatena appunto un rock’nroll sfrenato di tipo garage-rock, genere nato a metà degli anni sessanta, ma in questo caso legato a forme più avanzate come quelle degli Mc5; certamente la song sarebbe risultata molto più potente cantata da Robert Plant o dallo stesso Mercury invece che dal batterista il cui essere roco appare purtroppo un po’ sfiatato. Per finire, non finisce ‘Seven Seas of Rhye’, semplicemente un outro strumentale che con solo un minuto e venti perde la possibilità di esplicarsi e rendersi degno brano qual è, ed infatti verrà ripreso e concluso con un cantato, nel secondo lavoro, diventando uno dei pezzi migliori della band ed il primo singolo ad avere un grande successo.

Chitarrista con un suono “trattato” davvero originale; un’ugola che è oggi considerata la migliore che il pop-rock abbia mai avuto, dal timbro bellissimo, in grado di passare da voce piena a voce in falsetto con estrema naturalezza, ma anche modulata da un artista dall’abilità interpretativa fuori del comune. In realtà nella storia del rock Halford dei Judas potrebbe essere considerato un antagonista coi fiocchi data sia l’interpretazione che la capacità di modulazione delle corde vocali, anche perché per l’hard rock Halford è più adatto, ma per il mondo mainstream la sonorità della voce di Mercury appare più esteticamente bella e sarebbe difficile far capire il fascino del suono vocale del cantante dei Judas Priest a chi ascolta musica leggera o pop. Il disco è perfettamente a fuoco, compatto e soprattutto con nessun brano debole, anche migliore del comunque buonissimo “II” (che avrà un solo brano filler, cioè ‘The Loser in the End’, canzone povera ed inutile). C’è la classe e ci sono momenti fantastici, il tutto illuminato ad arte.

Con il debutto è inoltre già presente l’ecletticità anche se non ancora giunta agli estremi artistici, però l’essenza è già magica. Si tratta di un vero album hard rock per quanto con alcune puntualizzazioni provenienti da un mondo non prettamente hard, ma questi ultimi trattasi di elementi radi che non irrompono come invece avverrà dopo. Non ci sono quindi velleità commerciali come troveremo negli anni ottanta. L’anima rockettara è chiaramente esplicita, e sappiamo provenire soprattutto da Brian May ma di cui ‘Liar’ scritta interamente da Mercury, testimonia che tale velleità proveniva anche dal singer; e a riprova di ciò, cioè dell’anima rock del gruppo, sta anche il fatto che una delle canzoni più heavy mai scritte da loro, ‘Stone cold Crazy’ era già stata concepita e composta in questa occasione anche se poi verrà inserita solo nel terzo disco ‘Sheer Heart Attack’ del 1974. La critica si divise sulla valutazione, ma in molti furono d’accordo che vi si sentissero ispirazioni provenienti dai Led, chi considerando la cosa negativa, chi positiva, e ci fu anche chi vi riconobbe una certa impostazione enfaticamente glam.

Di certo emerge la volontà di non risultare banali e di evidenziare una netta differenziazione con la stilistica del tempo, legandosi al meglio dell’hard già esistente, sì, ma buttando nella scrittura tanta carne al fuoco, materiale per certi versi ancora in embrione ma che poi sappiamo avere avuto uno sviluppo magniloquente. I Queen avevano il genio dalla loro e tale prerogativa divenne fascino e malìa, e ascoltando questo lavoro viene fuori sin da subito una sua speciale specificità, per quanto ancora non elicitata in modo netto. Celebrando nel 2023 il cinquantennale di questo full-lenght, celebriamo un vero e proprio mito, uno strano essere sonoro che ha inglobato e prodotto un periodo di costume oltre che di arte.

Roberto Sky Latini

EMI (1973); Parlophone (1994) – Europe
Elektra (1973); Hollywood Records (1994) – USA
www.queenonline.com

Keep yourself alive
Doing All Right
Great King Rat
My Fairy King
Liar
The Night Comes Down
Modern Times Rock ‘n’ Roll
Son and Daughter
Jesus
Seven Seas of Rhye…

Freddie Mercury – vocals / piano
Brian May – guitar / piano, vocals
John Deacon – bass
Roger Meddows-Taylor – drums / vocals