Corey Taylor

CMF 2

Tanta americanità in questo secondo album solista del cantante degli Slipkot. Americano lui e la sua verve sonora. Ma anche tanta carne al fuoco, di differenti entità, quando durissime, quando orecchiabili, quando rock’n’roll, senza mai apparire piatta o semplicistica. Bella voce, belle canzoni, bell’atmosfera globalmente pregnante.

Traspare qualcosa che può essere accumunato ad alcuni aneliti sia alla Slipknot, sia alla Stone Sour, ma in generale trattasi di rock e metal di più ampio respiro.Il fatto che con la prima traccia ‘The Box’ l’album parta con acustici rimandi ai Led Zeppelin folk non deve trarre in inganno, il lavoro risulta in sé piuttosto metallico. E infatti subito dopo la gustosa ‘POST TRAUMATIC BLUES’ mette in chiaro che la potenza non è una scelta secondaria, e tramite riff pesanti, incrociati a freschissima chitarra solista e voce irosamente grumosa, si impatta iniettando la giusta dose di groove fumante, dove il ritornello orecchiabile non è assolutamente fuori luogo. L’alveo punkrockeggiante si elicita tramite la zompettante ‘TALK SICK’ che scatena tutta la sua aurea di funny sound. E uno spirito similare si ha dentro la punteggiata e corale ‘WE ARE THE REST’ che ricorda la frizzantezza r’n’r dei canadesi Danko Jones, lasciando scapocciare l’ascoltatore con la schizzata energia giovanile di chi è sotto il palco pronto a scatenarsi senza sosta. Una certa vena Grunge, mista ad un hard and heavy corposo, si trova nella stordente ‘PUNCHLINE’. Tra le soft-song le più introspettive risultano ‘MIDNIGHT’ e ‘SORRY ME’, in grado di far emergere, in entrambi i casi, un respiro suggestivo.

La prima riesce anche a stupire quando invece arriva l’assolo dalla forte personalità che elettrifica la song ben contrapponendosi alla parte calma in una escrescenza solista tesa. La seconda è più rarefatta e in qualche modo può essere associata alla verve del primo David Bowie, ma anche alla essenzialità di Brian Eno. La zona commerciale che insegna come si fa ad essere catchy ma tonici in pezzi di vero e genuino rock-metal, è data dalla fluidità e rotondità potente di ‘Beyond’ e ‘Starmate’, esempi di abile capacità scritturale che appare mainstream senza compromesso con la banalità. Troviamo anche un afflato pop, nel rock leggerino di ‘Someday I’ll change your Mind’, brano minore che appare ben fatto ma non irresistibile. La scheggia più violenta e irriducibile dell’opera è ‘All I want is Hate’, non male per sbrindellarsi e scuotersi, ma anch’esso brano minore.

Se l’esordio solista del 2020 era risultato intrigante, questo lo è ancor di più. Le durezze si alternano a morbide ballate, ma nulla appare inappropriato o fuori contesto, è l’anima rock del metallaro che odia stare chiuso in un unico contenitore, sebbene lo stile rimanga organicamente coerente. Nessuna originalità spinta, ma molta creatività. Abbiamo momenti da cantautorato southern-country, cenni di metalcore, spirito rolleggiante e sprazzi punk, sostenendosi con diversi rifframa heavy anni ottanta-novanta. Va detto che se l’ugola è di livello, non di meno la chitarra ha tanto spazio per esprimersi, non interviene mai solo per essere riempimento dato che gli assoli infatti sono aggiunte valoriali di notevole spessore che non buttano a caso nemmeno una sola delle loro note. A parte la copertina, bruttissima seppure simbolica, non è un disco che può essere messo in secondo piano nel panorama musicale della musica dura di quest’anno, è anzi una incisiva prova artistica dai contenuti interessanti.

Roberto Sky Latini

Decibel Cooper
www.coreytaylor.com

The Box
Post traumatic Blues
Talk sick
Breath of fresh Smoke
Beyond
We are the Rest
Midnight
Starmate
Sorry Me
Punchline
Someday I’ll change your Mind
All I want is Hate
Dead Flies

Corey Taylor – vocals /guitar / mandolin / piano
Zach Throne – guitar
Christian Martucci – guitar
Eliot Lorango – bass
Dustin Robert – drums