Diamond Head

Canterbury

Nel settembre del 1983 esce il terzo album dei Diamond Head, il capolavoro che ha distrutto la carriera di puri talenti. ‘Canterbury’ non è un disco commerciale, la sua orecchiabilità non segue le linee mainstream del momento storico; ma non segue strettamente neanche le coordinate metal della NWOBHM che la band aveva contribuito a costruire, di cui anzi essi sono uno dei quattro gruppi principali, fondanti della creazione del movimento heavy britannico (gli altri tre furono  Iron Maiden; Saxon; Tygers of Pan-Tang). Questa ipotetica ambiguità non fu capita mentre risulta uno dei lavori più ispirati di quegli anni.

‘MAKIN’MUSIC’ usa un riffing ed un ritmo cadenzato di tipo ac/dicisiano ma così ammorbidito che gli australiani si fa fatica a riconoscerli; è invece un brano senza aggressività con una verve alla Def Leppard che conserva nella voce una malinconia anticommerciale piuttosto netta, per una bellissima melodia, dentro una ariosità e raffinatezza semplici ma efficaci. Splendida la ballabile simil-FolkCountry ‘OUT OF PHASE’ che appare vicino a certo celticismo rock, e si dipana con variabilità strutturale che l’arricchisce in senso leggermente prog. Cinque sono però l’apice compositivo del disco. ‘THE KINGMAKER’ è un epico e scuro lembo di sonorità enfatica, supportato da andamento lento e tastiere che danno una idea di marcia inesorabile, a cui anche un coro caldo fa eco; assolo suadente ed eccentrico lontano da ogni banalità. Altro pezzo da novanta è ‘NIGHT OF THE SWORD’, una cavalcata alla Europe di quasi sette minuti, dove però si respira una epicità malinconica classica dell’ugola del cantante, così piena di languore da renderla unica, soprattutto nel passaggio dal ritmo alla calma, tramite un afflato rarefatto ma anche emozionalmente penetrante, e ancora una volta l’assolo sa gestire l’anima della composizione. Senza difetti anche ‘ISHAMEL’, con la quale ci si alza ancora di più, canzone che si stacca un po’ dal resto grazie ad una idea che vira verso un seme orientale, vissuto molto diversamente dalla maniera in cui l’hard rock ed il metal avevano fatto e stavano facendo; si sente una bellezza piena di contrapposti sentimenti fra speranza e dolore, dentro un alveo orecchiabile e scorrevole, per un brano che ammalia chi è abituato alla vera eleganza; forse l’orientaleggiante più simile a questa song sta nei molto successivi tunisini Myrath, che oggi suonano in questo modo. La title-track ‘CANTERBURY’, inizialmente ballata struggente e poi escrezione cadenzata, è un’altra opera d’arte, impreziosita da uno strumento a fiato e da una visione aulica della musica; con una chitarra elettrica ed un basso che seguono il tessuto sonoro rendendolo effervescente e denso. E infine inchiniamoci davanti all’episodio da dieci e lode ‘TO THE DEVIL HIS DUE’ che nel suo middle-time, mezza ballata e mezza progressive, emette un cantato passionale e sentito, pieno di pregnante feeling, su una struttura ben congegnata sia dal punto di vista della sua progressione che nella melodia assolutamente originale; e il momento di arresto ritmico che riprende prima del finale è di una vibrazione quasi mistica da renderlo uno dei pezzi più belli degli anni ottanta.

Anche i brani minori sono molto belli, come ‘One more Night’ che scorre leggero ma ficcante con qualcosa di pop alla Wham (che avevano esordito l’anno prima con due singoli), ma arrangiato col gusto rock di chi non si svende.  L’unico pezzo davvero catchy  è ‘I need your Love’, che potrebbe essere considerato vicino ai Police, in effetti si tratta del  brano poco significativo del disco, per quanto piacevole.

Album registrato con un arrangiamento magico, solo apparentemente evanescente, invece molto netto nella ritmica e nei passaggi sonori. Suoni puliti, di metallo non-metallo, che conserva però tutta l’essenza profonda tipica del gruppo. In questa opera diversa e personalissima, la band prosegue alcuni discorsi iniziati con l’album dell’anno precedente ‘Borrowed Time’ ma insistendo su quei suoni meno impattanti e più introspettivi, rendendo però tutto l’album un unicum specifico, globalmente coerente ad un piano in cui non c’è durezza pur mantenendo un impianto da gruppo hard and heavy. E’ un singulto da artista verace, creato per chi è in grado di evitare la trappola dei pregiudizi. Purtroppo fu un fallimento di vendite mentre nasceva il Thrash e prendeva piede lo Street Metal; mentre i suoni si indurivano e invece i Diamond si ammorbidivano. Ma tale ammorbidimento ha permesso che fuoriuscisse un lato espressivo singolarissimo, ed infatti questo disco rimane unico nel suo genere. Troviamo ambientazione celtica e qualcosa che sottolinea la verve britannica ben più che accennandola, comprese inflessioni Led Zeppeliniane. Molto ci si basa sulla voce tremolante ma intensa, e la strumentazione è anch’essa usata con geniale circospezione, inventando sfumature e decorazioni  nettamente fascinose. Virtuosismo dell’idea e non della tecnica, per un arrangiamento invece, tecnicamente sì, quello studiato con notevole cura. I Diamond Head sono stati sottovalutati per colpa di questo disco, e non hanno ricevuto in maniera adeguata il riconoscimento di fondatori della NWOBHM perché questo tentativo di risultare accessibili li ha invece allontanati dal grande pubblico. Solo trascorsi dieci anni riuscirono a pubblicare un nuovo album , il quarto ‘Death & Progress’, che riprese le radici metal classiche, anche se concepito e suonato ad alto livello come al solito; ma il tempo favorevole era passato, e il meritato successo interplanetario non è arrivato nonostante lo meritassero (anche per la produzione successiva). Ad oggi contiamo otto lavori, tutti ottimi, degni dei grandi del metal, con l’ultimo che è del 2019 (‘The Coffin’ Train’). Ricordare i quaranta anni di questo disco ci serve per dare la giusta dignità ad un gruppo che merita solo medaglie d’oro, e anche per dirci che tante perle del panorama rock sono nascoste e aspettano appassionati che le riscoprano, considerando anche che non è il successo a raccontare la qualità bensì l’ispirazione dell’artista anche quando non riconosciuto dalla maggioranza della massa. La band fu grandemente ispiratrice dei Metallica, i quali sappiamo che coverizzarono alcuni brani dei Diamond, e questa fortunata circostanza li fece rimanere in mente a una parte del pubblico e della critica. Ringraziamo anche noi fan, i Metallica per questo, ma i Diamond hanno una loro propria anima, e molto valoriale. Lunga vita al leader Tatler.

Roberto Sky Latini

 

Making Music
Out of Phase
The Kingmaker
One more Night
To the Devil his Due
Knight of the Sword
Ishmael
I need your Love
Canterbury

Sean Harris – vocals
Brian Tatler – guitar
Josh Phillips Gorse – Keyboards
Mery Goldsworthy – bass
Robbie France – drums