Who

Quadrophenia

Nel 1969 la band inglese sfornò un superbo concept album che è diventata una delle più importanti opere rock della storia, con un film che espone una storia oggi iconica, ipotizzando un messia e il suo crollo: s’intitolava ‘Tommy’. Ma nel 1973 gli Who ci riprovarono, stavolta con qualcosa di meno simbolico e meno fantasioso, cioè un tema realisticamente incentrato sulla difficoltà giovanile raccontata attraverso la storia di un malato di schizofrenia con però ben quattro personalità (da cui il titolo).

E’ una rock-opera densa di significati concettuali, ma pregna di suoni interessanti ed avvolgenti. Rispetto a ‘Tommy’, la musica di questa opera a doppio vinile è virata verso un raffinato progressive-rock e però anche più hard, sebbene le tastiere prendano una grossa fetta di presenza. Townshend ne è l’assoluto master-mind, ma l’averlo arrangiato con gli Who rende il lavoro del tutto consono alla band che aveva bisogno proprio di questi interpreti per ottenere l’ottimo risultato espressivo.

Le singole tracce sono introdotte da suoni ambientali che cercano di rendere più realistica l’ambientazione, anche in una maniera a volte suggestiva e quindi poetica, a volte con cenni di melodie poi presenti come canzoni. Parlare di pezzi minori in questo disco è quasi una bestemmia, ma forse possiamo nominarli come meno eccezionali. Pezzo tipico della visceralità degli Who è l’hard di ‘The Punk and the Godfather’ che però non lesina passaggi meno irruenti, sempre però in una continuità sonora ben legata. Più country-rock  ‘I’m One’ che tra acusticità soft e chitarra elettrica si dispiega in maniera più tradizionale e canonica, ma comunque efficace. ‘The dirty Job’ è un pezzo rock punteggiato di accenti strumentali, dove la vocalità è invece lineare e moderata ma comunque significativa. ‘Helpless dancer’ è un momento interlocutorio, c’è da dire che anche questi piccoli momenti posseggono il loro fascino. ‘Drowned’ scivola via con il piacere del rock a base blues e pianoforte rockin’n’rollig, che contiene comunque un ponte rarefatto emozionale.

Nel disco vi sono song di notevole spessore che diventano rocce strutturali di un disco magico. Molto intriganti la title-track ‘QUADROPHENIA’, e la sentita ‘THE ROCK’, due strumentali completamente da considerare prog e ricche di atmosfere pulsanti che contengono i vari temi musicali dell’opera. ‘CUT MY HAIR’ contiene la delicatezza elegante del grande rock, sopra il suo piano altri suoni formano un tessuto pregnante; l’anima è simile a cose passate del gruppo senza diventarne mero ripasso. ‘IS IT IN MY HEAD’ è un brano arioso con una bella progressione e una freschezza ruscellante, un rock raffinato, che precede uno stile che si conserverà fino al 1978 con l’album ‘Who are You’. ‘I’VE HAD ENOUGH’ è uno degli episodi più teatrali, attorniato di chitarra e riff schizzati tipici della band, ma con una variabilità tra diverse ispirazioni che è in grado di rendere il pathos un saliscendi ficcante. ‘5.15’ usa i fiati in maniera tipica del momento storico ma utilissimi al pezzo facendolo funzionare perfettamente bene, con una bella vibrazione di tonicità; le pause meno forti servono, per opposizione, ad aumentare l’esuberanza di quelle invece scattanti. Nella dolcezza di ‘SEA AND SAND’, s’interpone poi la durezza finale dove troviamo uno dei migliori assoli chitarristici, il tutto per uno stile classico ma ineccepibile. ‘BELL BOY’ è il pezzo della massima delusione psicologica per il personaggio della storia, ma non certo per la pimpante musica piena di suoni lucenti, uno dei pezzi più rock del disco, con dentro una interpretazione quasi parlata di Keith Moon che si dipana con una originalissima cadenza teatrale. Altro rock corroborante, fornito di ritornello enfatico, è ‘DR. JIMMY’ dove la batteria ed il basso palpitano e i fiati creati dalle tastiere donano maestosità, per poi cedere a sezioni soffici intensamente emotive, in un pezzo che ricorda un po’ i Jethro Tull di ‘Thick as a Brick’ dell’anno prima.

L’apice compositivo è formato da due pezzi straordinariamente ispirati. Uno è il brano di apertura ‘THE REAL ME’ il quale spiega subito che il tema lirico riguarda la schizofrenia. E’ un pezzo di stampo prettamente Hard Rock, sebbene la chitarra distorta non ci sia, è come ‘Don’t Stop Me now’ dei Queen che riesce ad essere del tutto hard rock senza usare la chitarra, e ciò significa alta abilità concettuale del compositore. Nonostante vi si aggiungano pure i fiati, l’energia e lo spirito sono quella musica lì, dura, suonando con frizzante accentazione ritmica. Assolutamente centrale il basso che emerge con nettezza, e poi la voce è piena di feeling estroverso e potente, riuscendo globalmente ad essere davvero esaltante. L’altro momento topico è quello di chiusura; alle estremità di questo ascolto abbiamo quindi le perle più preziose, e la seconda trattasi di ‘LOVE, REIGN O’ER Me’ che urla l’amore come unica essenza umana necessaria, e l’urlo finale di Roger è davvero debordante; si inizia con una parte soave in cui le tastiere cullano l’ascoltatore e la batteria crea ondate vibranti coi piatti per poi passare ad un finale dal pathos elevato, e i brividi sono inevitabili. Perfetta traccia per concludere un viaggio di superbia maestria compositiva.

La maggior parte delle singole song non ha una unica forma comunicativa perché spesso vengono inseriti ponti, inserzioni più dure o morbide, e differenti linee vocali, il tutto con intelligente coerenza stilistica. Lavorare alla registrazione dell’album fu, soprattutto per il chitarrista, un grande stress. Si voleva realizzarlo in quadrifonia, ma la registrazione apparve peggiore che in stereo e così si lasciò perdere, inoltre era pieno di innovazioni sonore rispetto ai lavori del passato, e quindi, passando per momenti di sconforto, la pressione psicologica fu altamente stancante. Subito dopo la sua registrazione la band dovette affrontare un tour, ma complice lo stress dell’album appena realizzato e la complessità dei suoni da aggiungere per i brani di ‘Quadrophenia’, i concerti ebbero notevoli problemi di riuscita, a cui si aggiunse anche uno stato del batterista non propriamente adeguato a causa delle droghe assunte.  L’album uscì il 26 ottobre del 1973 e fu elogiato, ma non fece subito un grande successo, aumentando le vendite progressivamente negli anni. Il disco però testimonia la pienezza artistica del momento.

La sezione ritmica è eclettica come al solito, e il drumming non lesina sezioni casiniste del solito Keith, mentre il bassista afferma per l’ennesima volta la sua bravura nel virtuosismo. Il fatto che non canti solo Daltrey è un assoluto bene, ne guadagna la differenziazione tra le parti. E la chitarra, per quanto attornianta spesso dalle tastiere o il piano, possiede la gustosa veemenza  di un Pete ardente. Questo disco rappresenta il massimo splendore di un gruppo che con pochi lavori è diventato mito e leggenda del rock. L’essenza anni sessanta del gruppo, seppure già allora esplosiva, è ben diversa da quella anni settanta, sempre fiammante ma con una sostanza maggiormente introspettiva e matura. Questo disco utilizza respiri prog con accenni persino sinfonici. Ma proprio gli anni sessanta sono raccontati dal disco nella lotta tra Mod (Movimento adolescenziale modernista che inneggiava alla moda e usava scooter pieni di specchietti) e Rocker (con giacche di pelle per una moda anni cinquanta), come a narrare di un sogno mitico che non si è realizzato, immaginando una realtà di valori che non esistono cercando fuori di sé invece che dentro, e che nei settanta è ormai chiaro siano state illusioni.

Ma riguardo alla delusione del personaggio Jimmy nel finale del film che uscì nel 1979 diretto da Franc Roddam, viene presentata un doppia ipotesi della sua fine con la moto che si schianta sugli scogli precipitando dalla scogliera: racconta il suo suicidio precipitando con la moto, oppure rappresenta il suo cambiamento gettando via la moto, e abbandonando le fantasie verso una vera maturità? La storia lascia questo quesito aperto, perché in effetti sono possibili entrambe le vie a seconda della persona. Gli Who, anch’essi non sono più gli stessi, come persone e come musicisti, i dischi lo testimoniano. Con Quadrophenia non è finita l’ispirazione (‘By Numbers’ del ’75, e soprattutto ‘Who are You’ del ’78, saranno lavori ancora molto significativi dal punto di vista musicale) ma nel 1973 questa opera rock segna la loro posizione più alta sul podio dell’arte. Il gruppo ne celebrò il quarantennale nel 2013 suonando l’album dal vivo per intero da cui  fu estratto il video ‘Live in London’, data eseguita al Wembley Arena. Quest’anno è il cinquantennale, ma il sound che fuoriesce da ‘Quadrophenia’ è perfettamente attuale e funzionante anche oggi.

Roberto Sky Latini

Track /Polydor /MCA
www.thewho.com

Side A
I am the Sea
The Real Me
Quadrophenia
Cut my Hair
The Punk and the Godfather

Side B
I’m One
The dirty Job
Helpless dancer
Is It in my Head
I’ve Had Enough

Side C
5.15
Sea and Sand
Drowned
Bell Boy

Side D
Doctor Jimmy
The Rock
Love, Reign o’er Me

Roger Daltrey – vocals
Pete Townshend – guitar / banjo / vocals / synth
John Entwistle – bass / horn / vocals
Keith Moon  – drums / vocals in ‘Bell Boy’

Guests:
Chris Stainton – piano