The Quest
Yes
L’attesa per un nuovo disco di questo mitico gruppo britannico non può che essere piena di aspettative, anche se gli ultimi full-lenght prima di questo in qualche modo non sono mai stati all’altezza della fama.
Si, perché anche se prevediamo che si possa non essere stupefacenti, le speranze sono sempre quelle di poter sentire le magie dei lontani anni passati, è troppo grosso il nome perché non si abbia questa tensione. Diciamo subito che infatti, come previsto, un po’ di delusione in questo ventiduesimo lavoro c’è, non manca la qualità ma manca la scintilla della magia profonda, e alla fine, oltre all’atmosfera, manca anche il lato tecnico di musicisti che dovrebbero essere dei mostri di bravura. Alcuni brani sono di livello, ma altri sembrano accontentarsi di basilari melodie piacevoli.Sicuramente tra le migliori tracce va annoverata l’apripista ‘THE ICE BRIDGE’ dove il cantato risulta il più bello e originale del disco, dove davvero si è cercato di fare la differenza, anche se gli assoli di chitarra, per quanto quantitativamente piuttosto presenti (nel finale), mancano di quella scintilla superiore che Howe dovrebbe accendere. Anche ‘DARE TO KNOW’, non molto Yes (all’inizio sembrano i Camel), è un ottimo pezzo, che poteva avere risvolti meglio sviluppati, ma di cui possiamo farci bastare l’essenza di base, così come ‘Minus the man’, che ha un certa profondità, poi tende a frenare certi passaggi che avrebbero potuto realizzare un accento migliore. E’ un continuo tirare l’elastico senza lanciarlo mai.
In ‘Leave well alone’ troviamo forse l’assolo di chitarra migliore del lotto (posto in fondo), liquido nel modo che è tipico di Howe, ma la song non contiene una linea melodica particolarmente incisiva, per quanto si basi su una eleganza formale ad armonia vocale doppia. Fa sorridere ‘FUTURE MEMORIES’ per la chitarra acustica che suona un giro che era di Ace Frehley dei Kiss, anche se poi diventa altro; ad ogni modo essa è una splendida canzone soffice, dove anche la voce si esprime con emozionalità, uno degli episodi più significativi del lotto. Mette di buon umore ‘MYSTERY TOUR’ che nella sua aria sbarazzina funziona bene, è un omaggio ai Beatles riuscito bene nella sua divertente scorrevole morbidezza ed in quella dimensione anche l’assolo sembra suonato da George Harrison. ‘Music to my Ears’ èha una buona orecchiabilità ma emerge un po’ semplificata, non certo all’altezza del compito, e sono queste cadute di profondità che fanno storcere la bocca. Poi la banale leggerezza di ‘A living Island’ non soddisfa, così come ‘Sister sleepin Souls’ che sembra uscita, per attitudine, dal disco solista poco valoriale di Steve Howe di pochi mesi fa, e lo stesso dicasi per una ‘Damaged World’ davvero poco ispirata, dove le sezioni d’assolo chitarra/tastiere fanno quasi inorridire per la loro pochezza. Scandaloso suonare così considerando di chi parliamo.
Rispetto al lavoro precedente, quell’ ‘Heaven and Heart’ del 2014, si ascolta una maggiore dinamica frizzante, troppo dolce e rilassato quello, anche se nemmeno qui esistono le durezze degli anni settanta che la band con toni rockeggianti univa alle folate country e folk. Ma oltre al songwriting non particolarmente innovativo o pregnante, in ogni caso sempre di classe e raffinato, troviamo essere assenti i caratteri tonici degli strumentisti. La chitarra di Howe possiede quei toni elegiaci rassicuranti di una volta, acustici soprattutto, ma non la bravura eclettica e la destrezza del grande maestro. Le tastiere sono così blande e hanno suoni così scontati, spesso prediligendo l’atmosfera filmica classica o la musica sinfonica, senza quei rivoli di freschezza tecnica che dava Wakeman variando anche nei suoni; Downes non sembra nemmeno il tastierista che era in ‘Drama’ tanta è la fragilità della sua presenza, appare molto in disparte e quando viene in prima linea non tenta alcuna carta che abbia personalità ma si appiattisce in tappeti scontatissimi. Inoltre la performance alle pelli di White si dipana nel modo più semplicistico mai suonato. Alla voce manca l’interpretazione di Anderson, il quale dava forte carattere alle partiture ma in fondo, assieme al batterista è quello che sfigura meno. Giusto il basso crea uno strato movimentato e corposo che sostiene molto bene il tutto, certamente non è Squire ma l’artista non sfigura.
Gli Yes non sono più gli sperimentatori di inizio carriera, ma non sono nemmeno i freschi e moderni traghettatori che portarono il Prog dai settanta agli ottanta con ‘Tormato’; ‘Drama’ e ’90125’, rinfrescandolo con agevole luminosità. Ma ancora non sono nemmeno i maturi uomini di sapienza musicale che lasciarono ottimi argomenti d’ascolto con ‘The Ladder’ (1999) e ‘Magnification’(2001); periodo in cui erano sazi di esperienza ma ancora curiosi di provare qualcosa che uscisse dai confini, per quanto senza osare troppo. Invece oggi, con tre dischi che si equivalgono esteticamente, a partire da ‘Fly from here’ del 2011, gli Yes si rifiutano di uscire dalla “comfot zone”, anzi, sembrano addirittura timorosi di guardare fuori, cercando soavità poco scattanti, e riducendo i balzi solisti e meri accompagnamenti di struttura. Se nel passato gli assoli divenivano essi stessi struttura, oggi i brani si reggerebbero anche senza parti soliste. Inoltre le orchestrazioni aggiuntive non raggiungono sempre l’obbiettivo di potenziare. Cosa hanno di altro in comune questi ultimi tre dischi di carriera oltre alla statica forma compositiva? Hanno l’assenza di Ian Anderson il cantante, con Benoit David prima e con Jon Davison in questi ultimi due, sembra mancare il carattere forte del vecchio mito Anderson, il quale non era solo esecutore ma anche creatore di linee vocali sublimi estremamente decisive per il valore dei singoli brani, e pensare che lui è ancora in giro a dire la sua.
I soli Yes originari sono Howe e White, i quali sembrano voler andare sul sicuro, cercando di elicitare atmosfere sognanti con i suoni e le melodie, riuscendoci anche, ma certe volte banalizzando se stessi con pattern sonori semplificati e ripetitivi, quel tanto da restare credibili come musicisti ma non come creatori elevati; spesso infatti l’attitudine cade in una dimensione artigianale invece che artistica. Artigianale qui è inteso non in senso di bassa tecnica, quanto di prodotto rifinito senza la ricerca di quel quid sensibile alla musa dell’arte. Più volte durante l’ascolto viene da pensare: “ecco qui adesso parte….qualcosa”, e invece poi il pensiero è “tutto qui? Ma davvero non si poteva dare di più in questo segmento?” Io ho ascoltato con piacere questo album, ma devo dire che, in una realtà contemporanea dove le vecchie glorie ancora pubblicano, preferisco ascoltare l’appena uscito lavoro dei vecchi Styx o quello nuovo di certi gruppi che ancora tentano la diversità, riuscendoci tra l’altro molto bene. Va detto che molti di questi gruppi odierni si ispirano chiaramente agli Yes e rendono i loro brani alla Yes migliori di quelli degli stessi Yes di oggi. Forse troppa gente si è avvicendata nella band, e Howe, senza gli altri, sembra non essere in grado di capire i tempi che sta vivendo, ripetendo troppo se stesso a livello base (se si ripetesse a livello stellare non staremmo qui a pontificare). Alla fine questo non è un album senza spessore, ma diventa un lavoro che sta nella media delle produzione generale di questi anni, dove dischi più emozionanti esistono. E non è soltanto che “semplicemente questi non sono gli Yes che volevamo”, anche come impronta compositiva ci sono chiari momenti di basso valore. Chi non conosce la band potrà sorprendersi per il fatto che abbiano un suono diverso dagli altri, a tutt’oggi in effetti è così, ma per un fan degli Yes ciò non è più sorprendente e quindi non basta a regalare brividi. Non è un disco all’altezza della antica prestanza del gruppo, ma nemmeno internamente al panorama Progressive. Se siete adesso giunti a scoprire gli Yes, e questa sonorità vi ha incuriosito, andate a conoscere come i suoni di questi eroi della musica fossero “eccelsa sublimità” una volta; ascoltatevi la vecchia discografia a partire dal 1971, e capirete appieno perché un album di tal fatta non può essere accettato.
Roberto Sky Latini
Inside Out Music
www.yesworld.com
CD1
- The Ice Bridge
- Dare To Know
- Minus The Man
- Leave Well Alone
- The Western Edge
- Future Memories
- Music To My Ears
- A Living Island
CD2
- Sister Sleeping Soul
- Mystery Tour
- Damaged World
Peter Hammill – vocals / guitar / piano
Hugh Banton – organ
David Jackson – bass /sax / keyboards / flute
Guy Evans – drums / piano
Guest
Robert Fripp – guitar (‘Man-Erg’; ‘A Plague of Lighthouse Keepers’)