The Lost Vision of The Chandoo Priest The Lost Vision of the Chandoo Priest
Un nuovo piano musicale ? Un nuovo modo di cogliere riferimenti dal passato ? Un nuovo disegno per attualizzare ciò che è stato ..ed infine, finalmente musica per certi versi indie-internazione anche nell’intenzione, nel gusto e nello stile puramente italico ?
The Lost Vision of the Chandoo Priest è decisamente un si a tutte queste domande, Francesca Zanetta e Niccolò Galliani, giovanissimi ma già attivissimi nel panorama rock nostrano per la partecipazione in bands come Unreal City, Cellar Noise e Quel che Disse il Tuono, cominciano una nuova vita sonora con un album tra prog e psichedelia. Si tratta ovviamente di qualcosa di completamente diverso dalle formazioni di provenienza in quanto Francesca e Niccolò si calano nella veste di multi-strumentisti e con il grosso contributo di Pietro Pellegrini in fase di registrazione e missaggio danno vita ad un album interamente strumentale che unisce le molteplici connessioni con i Pink Floyd degli anni 60/70 al nuovo prog-rock scandinavo che tanto ha contribuito al risveglio di tale movimento musicale.
Floating down the valley è l’ottima opener a metà tra i floyd più sperimentali e gli yes degli albori, la second traccia Chasing time in opposite direction (pt. I) non mi prende particolarmente e preferisco di gran lunga la seconda parte che trovo più corposa ed originale. Ma ripristiniamo l’ordine del cd, con la track 3 e la meraviglia dell’arrangiamento in stile Echoes/Careful with that axe, quasi cinque minuti ricchi di pathos segnati dall’incedere vertiginoso quasi come un bolero che sul finire del brano si interrompe e lascia spazio al mare ed al respiro dei gabbiani…Con The white toad majesty il fantastico duo si esibice in qualcosa che è molto affine ai King Crimson con una notevole parte centrale lasciata ad un flauto sognante sopra un arpeggio incantevole. Droplets, con le sue tastiere molto cinematografiche è forse l’unico pezzo del lavoro fuori tema, ricorda stranamente qualcosa dei Goblin che tra l’altro io adoro !
Il trittico Getting nowhere, London underground, Farewell dog è consistente ed omogeno con riferimenti a Gentle Giant e Jethro Tull, è straordinaria in particolare la parte conclusiva di Farewell dog dove l’incedere senza pietà del flauto di Niccolò quasi gareggia e battaglia con la batteria e la chitarra elettrica nel più puro stile Anderson. Tale incedere si ripropone ma in modo molto più lento e compassato nell’ultimo brano Dunans castle, leggiadra e degna conclusione per questo ottimo lavoro di esordio.
Un disco che consiglio per i suoi sublimi contenuti e riferimenti alla grande musica creata nel corso degli anni. Bravi ragazzi !
Massimo Cassibba