Riot

Fire Down Under

Nel quarantennale dell’uscita festeggiamo ‘Fire Down Under’, il terzo album degli statunitensi Riot che il 9 febbraio vide la luce. E’ un album particolare sia per la storia del metal, sia per quella della band in quanto è il disco che si inserisce nel pieno del periodo della NewWaveOfBritishHeavyMetal, ma viene dall’America, ed anche per il gruppo è un album che cambia le carte in tavola.

Del resto i Riot esordiscono nello stesso anno dei Saxon, prima degli Iron Maiden e prima dei Diamond Head.  I Riot nascono insomma nello stesso periodo della NWOBHM, e testimoniano come la nuova ondata di durezza non fosse solo appannaggio della Gran Bretagna, ma l’onda anomala era in qualche modo respirata in maniera più internazionale (come negli USA la stessa cosa avveniva per esempio in Germania con gli Accept), anche se fuori dall’isola europea aveva un aspetto globalmente meno esuberante. In realtà nel 1979 i Riot con l’album ‘Rock City’ avevano già delle escrescenze metalliche, come testimonia la song ‘Warrior’ anche se il suo giro di chitarra ricorda Blackmore, ma con il riffing l’Heavy è già esplicito. Lo stesso avviene con ‘Road Racin’ nel secondo full-lenght ‘Narita’ (1980). Ma è con l’album ‘Fire Down Under’ che si raggiunge la più schietta modernità.

In realtà il disco contiene afflati hard rock ancora riscontrabili in alcuni pezzi, ma quello che cambia dal loro passato è la produzione sonora più roboante e aggressiva. In tre pezzi ci si scatena rompendo col passato. Iconica la prima song ‘Sword and Tequila” che imbraccia la potenza tipica del nuovo sound del rock duro con stampo del tutto moderno, distaccandosi dall’hard e presentando ciò che è il vero suono Heavy della nuova corrente; è un pezzo piratesco e sfacciato che cerca l’impatto. Lo stesso fa la miccia della title-track ‘Fire Down Under’ che aumenta la velocità come Power song, breve ma deflagrante, in cui anche l’assolo inietta stilettate taglienti che con l’hard Rock hanno poco a che fare. Sempre nella stessa scia si imbizzarrisce ‘Run for your life’ che si ispira al tipico riffing dei Judas a cavallo tra settanta-ottanta, sguinzagliando però una sgroppata molto più fluida di quanto era in grado di fare la band inglese. L’altro brano molto Heavy Metal è ‘Altar of the King’ meno immediata, ma dal sapore epico che però, pur agganciandosi alle ariosità di Rainbow di Ronnie James Dio, guarda più agli anni ottanta che ai settanta.

Certamente episodi come ‘Feel the Same’; ‘Outlaw’ e ‘No Lies’ sono ancora molto legati agli anni settanta, inoltre l’orecchiabilità decisa del dna americaneggiante aleggia spesso, e la si percepisce in ‘Don’t bring me down’ e ‘Don’t hold back’. Tutto ciò però è costruito dentro una sonorità prettamente moderna. La band va considerata del tutto figlia degli anni ottanta come innovatrice del panorama che contestualmente stava pervadendo il mondo rock. La voce di Speranza dà un contributo netto alla modernizzazione del songwriting, con il suo stile molto espressivo ma anche molto energico, senza virtuosismi da acuto o da potenza, ma con un cantato che, seppur pulito, spinge sull’impatto irruento. Il cantante subito dopo lascerà la band venendo a far mancare un’ugola molto caratterizzante e fresca.

La chitarra di Mark Reale suona un po’ come quella dei Rainbow e molto più spesso come quella di Michael Schenker, lasciandosi andare a rimembranze molto tradizionali, ma altre volte l’irruenza aumenta e anche il suono si fa meno morbido, soprattutto nei pezzi più tesi, ed è qui che saggia il proprio carattere heavy. Non è musica che cerca soluzioni troppo cerebrali, ma pur con una certa classe predilige l’immediatezza tipica della vera essenza metallica, come apripista in contemporanea e non certo come seguace. Questo disco va inserito quindi in un contesto culturale in rinnovamento e già forse rinnovato, sebbene la spinta del movimento non fosse ancora esaurita. Che il gruppo, anche se non britannico, si riconoscesse consapevolmente nell’ondata della New Wave Of Metal, lo testimonia l’ultimo pezzo ‘Flashbacks’ che fu inserita come dedica a Neal Kay, dj londinese della NWOBHM, propagatore della fede metallica in aiuto alle band emergenti, continuamente immerso nelle demo che gli venivano inviate a mucchi. ‘Fire down under’ è una opera che segna una annata potente, diventando uno dei punti di riferimento di un certo tipo di espressività e che fa parte del gruppo di lavori che hanno influito nella storia del metallo anche a livello europeo verso le band del vecchio continente. Il combo non si fermò certo qui, e nei due anni successivi sfornò altri due dischi, rendendo i Riot attivamente influenti in tutta la fase della NWOBHM fino al 1983.

Roberto Sky Latini

Elektra Records
www.riotsweb.com

Swords And Tequila
Fire Down Under
Feel the Same
Outlaw
Don’t Bring Me Down
Don’t Hold Back
Altar of the King
No Lies
Run For Your Life
Flashbacks

Guy Speranza – vocals
Mark Reale – guitar
Rick Ventura – guitar
Kip Lemming – bass
Sandy Slavin – drums