Pyramaze
Blood lines
Questa band danese con cantante norvegese è al suo settimo disco e non siamo affatto nello stile sonoro del loro esordio, mentre si prosegue solo in parte nell’essenza formale del penultimo ‘Epitaph’ (2020). Abbandonate quasi tutte le evoluzioni progressive, mantenute solo parzialmente quelle power, dell’ultimo si conservano solo le melodie ariose, mentre si eliminano più o meno tutte le digressioni strumentali. Ma a ben ascoltare, anche l’estetica delle melodie è mutata, diventando qualcosa di estremamente più catchy. Evitando troppe variazioni sul tema, ogni song diventa più semplice e diretta.
In fondo potrebbe trattarsi di un’altra realtà musicale, ma invece sono sempre i Pyramaze. Non è un passo falso, ma il lavoro non è fatto per soddisfare tutte le esigenze del fruitore abituato alla modalità compositiva precedente.Le strumentali ‘Bloodlines’ e ‘Wolves of the sea’ sono legate alla tradizione cinematica di stampo sinfonico, hanno una certa profondità ma non sono affatto fuori della canonicità, per cui nulla aggiungono e nulla tolgono all’album. Meglio assolutamente le composizioni cantate.
La riuscitissima ‘Taking what’s mine’ è una brillante melodia iper-accattivante, ma piena di pathos, sorretta da un struttura tonica cadenzata che avvolge la linea musicale valorizzandola. Altro pezzo da novanta è ‘Fortress’ che è il residuo power di qualità portato in questo disco; brano luminoso ma anche potente, con una linea cantata maggiormente tagliente, e altrettanto funzionale dal punto di vista dell’attrazione. Tocca il proprio passato ‘the mistery’ che appare notevolmente rockeggiante; nell’insieme regala una atmosfera in stile asia sia per linea vocale che per suggestione; e l’atmosfera aumenta in energia nel finale grazie anche ad un assolo splendido, il quale nella sua freschezza scintillante di lama affilata per la chitarra, e di enfasi colorata per la tastiera, testimonia che la band è ancora in grado di sfavillare con le sue armi strumentali virtuose, senza doversi per forza limitarsi alla cura degli arrangiamenti.
Altri begli episodi sono ‘Broken Arrow’ che emerge soprattutto per il ritornello teso ed accentato, e poi la più gotica ‘Even if you’re gone’, che incede densa, anch’essa con ritornello ficcante. I brani minori riescono a dare piacere, perché comunque sono stati forniti di buone escrescenze espressive, pur a volte lasciando che emergano momenti scontati, soprattutto vocali. Ciò è evidente nella ballata ‘Alliance’, la cosa meno riuscita dell’album, l’unica davvero poco efficace, che si presenta come qualcosa di già sentito; è piacevole ma non colpisce. In altri casi si sente la povertà pop che tende a farsi avanti come in ‘Stop the bleeding’, dove funziona molto bene il ponte morbido centrale, ma il resto accetta un livello medio-basso. Non sempre fare il power che si conosce da buoni risultati, e infatti ‘The midnight sun’ non regala particolari emozioni anche se scorre fluidamente.
Possiamo notare che l’idea costitutiva di questo full-lenght è voler essere immediati. Senza assoli, senza molti passaggi, senza tante modulazioni, ci si basa totalmente sulle strofe e sui ritornelli. Spesso al posto di parti soliste ci sono pause rarefatte che servono a farsi momento di calma per accentuare la presa energetica del ritornello appena successivo, schema che si ripete quasi sempre in ogni traccia, anche nelle migliori. Abbiamo sicuramente una voce che si impone per la sua bellezza e pulizia esecutiva, anche piuttosto espressiva.
E quando vuole la sei corde solista è magnifica, ma di solito pare non voglia. Quello che funziona bene in questo approccio è l’arrangiamento piuttosto enfatico che potenzia ogni settore e quindi l’equilibrio tra melodie e struttura diventa per questo dinamico e accalorato, scevro da input stucchevoli; dove manca il virtuosismo, il pompaggio sonoro riempie gli spazi e fa sì che la song appaia ricca. I Pyramaze hanno diverse facce in questo album, pur rimanendo nella stessa scia sonora tracciata, e possiamo sentire diverse differenze di forma e di concezione. Da un lato si sente l’attitudine prog, ma è solo una sensazione perché in pratica si rinuncia a percorrere tale vecchia strada; è prog nella misura in cui lo sono stati molti dischi degli asia, cioè quasi per niente, respirando quelle possibilità ma non utilizzandole, mettendoci solo spunti che però non fanno diventare progressive la musica suonata.
Rimane quell’afflato power di cui si parlava, ma non è costante. In qualche modo invece alcune delle canzoni presenti possono essere paragonate allo stile degli svedesi Pain, non in tutte le sfaccettature che anzi siamo anche su generi non sovrapponibili (di certo i Pyramaze non sono industrial), ma nell’idea che basti la melodia, ritornelli orecchiabili, un po’ di elettronica, per fare funzionare la cosa. In effetti ha funzionato per parte della produzione dei Pain, e funziona in effetti anche in questo lavoro. Poi troviamo sinuosità pop e un aor di fondo. Un risultato sicuramente riuscito; non è un disco per tutti, ma sicuramente in grado di avere l’appeal giusto per chi ama l’orecchiabilità lontana dalle sdolcinature.
Roberto sky latini