Obituary
Dying Of Everything
Immaginate di poter fermare il mondo per circa quarantacinque minuti, immaginate di poter cambiare radicalmente visione di ciò che è, immaginate l’inferno fatto Terra, il globo completamente putrescente, ricoperto di melma e fango maleodorante, dove gli unici specchi d’acqua sono costituiti da paludi le cui acque non sono frutto di stagnazione, ma sono i fluidi di carcasse in decomposizione, immaginate l’olezzo che pervade l’aria e le narici e provate a seguire i movimenti lenti, precari e pesanti dei corpi ancora umani che si muovono alla ricerca dei propri consaguinei. Ora, drizzando le orecchie, non pare giungere una musica catacombale che fa da colonna sonora a questa apocalisse? La musica è quella degli Obituary, l’unica colonna sonora possibile per una simile devastazione.Ebbene sì, gli Obituary sono tornati e lo hanno fatto con un disco che ha gettato un manto sporco di sangue rancido e putrefazione su questo 2023 appena iniziato. La storia del death metal è tornata dopo ben sei anni dall’ultima release in studio e devo dire che lo ha fatto alla grande, andando a sradicare tutte le inutili sovrastrutture che aveva iniziato a portarsi dietro negli ultimi anni, inondando il mercato di dischi che non erano minimamente all’altezza del loro nome.
Dying Of Everything è una vera mazzata sulle gengive: un concentrato di riffoni carichi di groove ed ossessivi come solo gli Obituary sanno fare senza risultare noiosi o sgonfiati.Undicesimo disco e undici tracce per rendere omaggio a questo spettacolare ritorno sulle scene, songs capaci di colpire dritto nel segno grazie alla loro catturante semplicità e senza la necessità di dover per forza dimostrare qualcosa: un concentrato di puro death metal imbastardito da alcune “scivolate” nel thrash che sanno di casa per chi è fan degli Obituary.
Tardy e soci hanno saputo approfittare dello stop forzato offerto dalla pandemia per tornare ad essere se stessi, forse sono finalmente riusciti a guardarsi dentro e a fare riaffiorare la loro scrittura; una scrittura che li ha caratterizzati fin dagli esordi, infatti nessuno suona come loro, nessuno è capace di scrivere riff semplici ma al cui interno si accompagna una brutalità e marcescenza disarmante, accompagnati a stacchi doomy capaci di conferire un’aria ancora più sinistra al tutto. Sono tornati i loro suoni carichi di basse frequenze capaci di sottolineare ancora di più i groove mid-tempos che da sempre sono il loro marchio di fabbrica: Dying Of Everything sembra voler offrire una porta che sia un salto temporale, riportandoci agli anni in cui uscirono World Demise e Back From The Dead; gli anni sembrerebbero non essere trascorsi perché, produzione a parte, i riff che compongono il disco sembrerebbero uscire direttamente dalle sessioni dei due dischi sopra citati.
Gli Obituary sono davvero sugli scudi e Trevor Peres, insieme al suo compagno di ascia, è riuscito a mettere su undici killer Song, grazie anche alla prestazione vocale esilarante di John Tardy e di una sezione ritmica, sorretta da Donald Tardy, che non fa prigionieri, tirando avanti come uno schiacciasassi. Al contrario di quanto pensano alcuni dei miei colleghi, non vedo filler songs in questo Dying Of Everything, vedo un paio di canzoni forse meno riuscite, ma ogni brano è esattamente dove deve essere, utile a continuare a portare alto il vessillo della morte e del disfacimento planetario e utile a rimettere i ragazzoni di Tampa nell’olimpo del death metal; era davvero un peccato vederli scivolare pian piano nell’anonimato mentre alcuni colleghi, con cui hanno contribuito a fondare un genere, continuavano a raccogliere consensi, nonostante dischi decisamente mediocri, mentre loro non riuscivano comunque ad attivare consensi.
Dying Of Everything è il miglior disco degli Obituary dai tempi di Frozen In Time e stiamo parlando del 2005, anno che segna il ritorno sulle scene della band dopo una lunga pausa, che andava avanti dalla fine del tour che accompagnò Back From The Dead, e vi assicuro che davvero il tempo sembra essersi fermato e pare che questo disco sia il diretto successore di Frozen: insomma qui è possibile trovare la summa di tutto ciò che i Floridiani sono e sono stati, semplicità, groove, riff assassini seguiti da rallentamenti superbi, influenze thrash, puzza di zolfo e sapore di morte.
Daniele “Darklordfilthy” Valeri