Manowar
Into Glory Ride
Quando si parla di metallo epico, la più grande band mai superata in questo campo rimangono i Manowar, che crearono un metro di misura rimasto quello fondamentale, nonostante la bravura in tal senso di anche altre realtà (Manilla Road; Virgin Steele; Blind Guardian; Gamma Ray; Judas Priest).
Possiamo considerare i Manowar stilisticamente anticipati dai Rainbow e dai Black Sabbath di Ronnie James Dio, i quali sembrano i precursori appunto degli americani per il tasso formale, fortemente epico, quindi i Manowar non nascono da zero, sono debitori sicuramente delle due realtà citate. Ma la visione del gruppo americano è estrema in tal senso, portata ad un altro livello, e la forma magniloquente che misero in essere non è sinfonica, ma tutta incentrata sulla liricità della voce e sulla grana grossa della chitarra distorta, un po’ appunto come l’Heavy che Ronnie traghettò dall’Hard, quindi rimanendo a doppio piede nel genere Heavy Metal appunto. Sono stati però un gruppo innovativo nel creare uno stile e nel gestire i suoni, grazie alle sonorità sporche e ruvide, venute fuori sì per la produzione tecnica non superlativa, ma proprio per questo particolare.
E’ cioè stata anche la tecnica non plastificata delle registrazioni a rendere potenti e grandi i capolavori dei Manowar. Nel 1983 (uscì il primo luglio) siamo al secondo album, ma esso è già un lavoro maturo e perfetto, scevro da difetti compositivi, completamente riuscito. Il primo era un buon album e aveva avuto il merito di scrivere pezzi importanti come ‘Metal Daze’; ‘Manowar’; ‘Dark Avenger’ e soprattutto la straordinaria ‘Battle Hymn’, uno di quei brani capolavoro che sta con un 10 e lode nell’empireo mondiale del metal, e che racchiude tutta la filosofia della band. ‘Battle Hymn’ in realtà sarebbe una traccia degna di ‘Into Glory Ride’, album anch’esso da 10 e lode. E infatti si tratta di un lavoro che esalta al meglio il senso epico di un sound che brilla in bellezza ma anche in ispirazione artistica. Non è un disco facile, non è commerciale, è “Vero Metal”, come usano gridare i Manowar. La copertina era kitsch, con i musicisti vestiti alla Conan, ma esplicativa di un sound irriducibile e di una mentalità fuori dalle righe, peculiare di una mentalità prettamente metallica, che non si vergogna mai del proprio essere.
Il pezzo iniziale ‘Warlord’ prosegue la stilistica più classicamente heavy dell’esordio; ma è ficcante, deciso e semplice così da entrare subito nella carne da combattimento del metallaro puro; viene preceduto da un intro sexy con mugolii femminili da godimento, oggi non certamente politicamente corretti, ma il metal non se ne cura di certo. E’ un episodio efficace ma ve ne sono di ancora più funzionanti. Dalla seconda traccia in poi infatti arrivano i Manowar rivoluzionari. ‘SECRET OF STEEL’ inizia finalmente la marcia gloriosa della massima scala artistica, con un doom pesante, dove il basso e la chitarra esprimono circonlocuzioni virtuose, colme di anima; la melodia è un malinconico afflato di sentimento, intervallato da cori che ampliano il senso di profondità emotiva e si aggiunge un assolo che è una cascata di note scintillanti. ‘GLOVES OF METAL’ utilizza un drumming peculiare creando un effetto ridondante, che il basso addensa accompagnandosi alla ritmica, in una progressione geniale che è in grado di sostenere, valorizzandola, la linea melodica.
‘GATES OF VALHALLA’ fa sì che ci sia anche un momento soft, ed esso è di sublime appeal, con un feeling che viene reso ancor più suadente dalla fluidità della chitarra che l’accompagna; poi giunge la ritmica cavalcante che nelle sue accentazioni marziali potenzia in modo incredibile il senso guerresco della traccia, e la melodia sembra proprio quella di cavalieri che onorano le gesta epiche. ‘HATRED’, pachidermicamente lenta ed ossessiva, è invece il momento più sperimentale dell’album, con una crudezza sonora che in qualche modo porta dentro i Manowar qualcosa del Black Metal, anche se la voce rimane pulita, ma nell’insieme si erge una oscurità anti-commerciale molto intensa; è un brano che disegna desolazione, distruzione e una pressione arcigna, che poi nel ponte centrale, tra vocalizzi e assolo, si comprime per essere ancora più maligna. E’ una song dal fascino irresistibilmente opprimente, anticipatrice di tanta musica che verrà. ‘REVELATION’ torna col ritmo da cavalcata, solo più veloce di quello usato in ‘Gates of Valhalla’, e però vi vengono inserite pause melodiche per aumentarne il pathos espressivo; qui la batteria varia con un dinamismo da combattimento, la melodia descrive visioni ariose e la chitarra non fa solo riff, ma decora l’andamento aprendosi, fino ad un assolo che si inalbera luminoso. Alla fine si tratta di uno dei pezzi meno claustrofobici, in qualche modo solare, pur nella compattezza. ‘MARCH FOR REVENGE’ è il terzo episodio con ritmica a cavalcata; si tratta di una suite che chiude, con alto tasso teatrale, la potenza di un disco che canta il superuomo combattente e degno di onore.
Troviamo in esso un secondo segmento morbido, davvero dolce e magico, che evidenzia la bravura della band di trattare sia la materia d’assalto che quella evocativa e l’assolo è uno dei migliori dell’album. Infine il pezzo termina ricalcando l’idea tirata fuori con ‘Battle Hymn’, nel prolungare il finale in maniera enfatica, come crescendo tipico alla Guglielmo Tell di Rossini, ma meno invadente di quello di ‘Battle Hymn’. ‘Into Glory Ride’ inaugura una tripletta che è l’apice valoriale dell’epic metal internazionale. Ed è pure l’apice artistico della discografia della band. L’anno dopo, il 1984, verranno pubblicati sia il terzo ‘Hail to England’, sia il quarto ‘Sign of the Hammer’ diventando in tre passi il fulcro a cui tutti dovranno fare riferimento. C’è tanta raffinatezza nel suono crepitante, idee portate con altissima intelligenza costruttiva.
Questo tris apporta al metal un altro livello creativo, inventando una modalità nuova, all’avanguardia, che rende i Manowar appunto importantissimi e centrali nella storia della musica che tanto amiamo. L’ugola è un elemento cardine all’interno della concezione musicale presentata, al di là della capacità virtuosa di portare tonalità diverse e acuti impressionanti, è da rilevare quanto sia una forza interpretativa necessaria al mood che la band respira. Lo spirito della voce in qualche modo è avvicinabile alla liricità di Ronnie James, ma con una capacità di modulazione ben più ampia di quella di Dio. Formidabile l’accoppiata della sezione ritmica, assolutamente centrale nell’accorpare la tensione emotiva della progressione sonora. La chitarra altrettanto poderosa nell’erigere il muro compatto della distorsione, per ciò che riguarda gli assoli non cerca di essere mai troppo virtuosa, ma piuttosto di tenere un profilo adatto allo svolgimento del brano riuscendo a dargli una caratterizzazione particolarmente personale. In questo disco non ci sono pezzi orecchiabili come avverrà da ‘Fighting the World’ (1987) in poi, abbassando la crudezza globale, per cambiare anche l’approccio della produzione tecnica, sempre bombastica, ma più levigata e pulita.
E’ invece questo un album duro, inflessibile, caparbio, e la band continuerà ad esserlo ancora per un pò. Celebriamo questo quarantennale perché inizio di una trilogia stupenda, apice trinitario della band, che vale nella loro carriera come ‘The Yes Album’; ‘Fragile’ e ‘Close to the Edge’ valevano per quella degli Yes, musica diversa certo, ma paragone per dire che in tre lavori consecutivi, i Manowar come gli Yes, discograficamente dettarono legge nel proprio ambito. I Manowar sono una icona centrale nell’evoluzione del metal, in grado di smuovere anche pulsioni emotive interiori. Non si tratta semplicemente di buone idee quanto di una stagione fulcro, tesa a diventare leggenda come poi è avvenuto.
Roberto Sky Latini
Music for Nations
www.manowar.com
Warlord
Secret of Steel
Gloves of Metal
Gates of Valhalla
Hatred
Revelation (Death’s Angel)
March for Revenge
Eric Adams – vocals
Ross the Boss
Joey DeMaio – bass
Scott Columbus – drums