Iron Maiden
The Number Of The Beast
Siamo al quarantennale di un disco che ha fatto la storia e che piace anche ai non metallari, e al quale si sono ispirati in tantissimi. Non è il primo disco della New Wave Of British Heavy Metal, gli stessi Iron ne avevano già sfornati due nella stessa corrente musicale, ma è l’album dei Maiden per eccellenza, quello che è diventato metro di paragone per la qualità dell’Heavy Metal che contiene.
Si, è Heavy Metal puro, senza contaminazioni, senza allargamenti stilistici; figlio dei Deep Purple e dei Judas Priest, abbandonando la vena punk degli esordi, anche se non del tutto. Difficile parlarne senza che nessuno trovi da criticare una recensione che non sia un’ode enfatica. Di questo disco bisogna solo parlarne bene. E’ un simbolo, un’icona, una bibbia. In quel periodo si facevano sentire tanti tipi di band diverse, ed inoltre si fortificavano gruppi di vecchia data che cercarono, sull’onda del movimento, di tornare in auge, infatti in parallelo tanti vecchi gruppi si associarono ai nuovi pestando con una marcia in più: Ufo; Scorpions; Uriah Heep.
In realtà per un metallaro fondamentalista anche altri dischi possono essere percepiti dello stesso livello, per esempio ‘Strong Arm of the Law’ dei Saxon (1980) o ‘Screaming for Vengeance’ dei Judas (sempre 1982), o ancora ‘Lightning for the Nations’ dei Diamond Head (1980), ma quello degli Iron rimane il più trasversale e osannato, nonostante alcuni brani minori che non sono certo al livello di quelli al top (‘The Prisoner’ e ‘Gangland’). Tra il 1978 e il 1981 la freschezza della nuova ondata di rock duro aveva vinto sulle perplessità del mercato, e nel 1982 già molti gruppi famosi avevano assunto una produzione meno grezza e più scintillante, nonostante gruppi minori continuassero a suonare poveri a causa dello scarso budget. Sicuramente il terzo lavoro degli Iron Maiden ebbe una produzione all’altezza del nuovo trend, ma non fu questa la vera causa del successo, che la tecnica sopraffina si era già sentita, anche se ora ne era aumentato il tasso qualitativo. Un motivo oggettivo è difficile da trovare, ma di certo la cantabilità delle chitarre può essere stato un elemento distintivo, o una personalità fortissima del cantante che aprì a sonorità più ampie, ma anche uno stile narrativo che andò oltre la forma canzone. In realtà gli Iron Maiden sono unici, se Saxon e Judas hanno forme condivise anche con altre band, per la forma degli Iron non si trovano molte similarità nel panorama. In senso negativo potremmo dire che è una forma da cui poi non sono più riusciti a liberarsi, mentre Saxon e Judas sono stati più variegati e nel tempo si sono auto-rinnovati. Ma in quell’anno, quell’album fu una novità, novità anche rispetto a se stessi dopo la dipartita di Paul Di Anno con l’ingresso di Bruce Dickinson alla voce, cosa che permise un cambio di rotta.
Quattro sono le perle di elevatissima dimensione e che meritano voto 10 e lode a pari merito. Si tratta delle più evocative. Sono la iper-amata title-track ‘THE NUMBER OF THE BEAST’; le due mezze-prog, ma non troppo, ‘HALLOWED BE THY NAME’ e ‘22 ACACIA AVENUE’ e la semiballata pregnantissima di ‘CHILDREN OF THE DAMNED’. Sono l’emblema del metal senza tempo, senza difetti, senza ombre; cioè canzoni che rappresentano l’arte pura di questo tipo di musica, impossibili da criticare. Il resto non si abbassa di molto, anche perché alla fine la qualità globale è così alta che prediligere una song rispetto all’altra è forse solo questione di gusti. A ‘Run to the Hills’ e ‘Invaders’ potremmo togliere la lode ma rimarrebbe ad entrambi un bel 10 tondo tondo. Proprio ‘Run to the Hills’ merita di essere menzionata per una sua caratteristica unica: essere quarantacinque giri di successo commerciale senza avere nulla che la faccia apparire commerciale dal punto di vista sonoro: non è melensa, non è leggera, non è suadente; no, è un pezzo al 100% Heavy, una cavalcata inossidabile che spara chitarre e urla senza alcuna remora, eppure fa faville col suo piccolo vinile (27° posizione e disco d’argento), in un periodo in cui si tentava ancora di fare singoli melodiosi anche nel metal. Gli Iron Maiden non ebbero bisogno di fare i ruffiani per avere successo, e un successo mondiale a cui li spinse proprio questo album. Festeggiamo quarant’anni dalla sua uscita, ma esso è attualissimo, non odora di vintage, è come se fosse uscito oggi. E’ giovane musica che cattura sempre nuovi fan, anno per anno. Un metallaro che non apprezzi questo disco non può essere metallaro, e non perché i gusti non contino, ma perché è proprio la musica del metallaro.
Roberto Sky Latini
Lato A
Invaders
Children of the Damned
The Prisoner
22 Acacia Avenue
Lato B
The Number of the Beast
Run to the Hills
Gangland
Hallowed be thy Name
Bruce Dickinson – vocals
Dave Murray – guitar
Adrian Smith – guitar
Steve Harris – bass
Clive Burr – drums