Ibaraki

Rashomon

Uno ascolta l’intro iniziale ‘Hakanaki Hitsuzen’ e pensa al fisarmonicista argentino Piazzolla. Invece siamo di fronte ad un metal estremo che però alterna la propria brutalità a intensi momenti di progressive gotico e melodia.

Leggendo il moniker e i titoli delle tracce, si pensa subito ad una band del Giappone. Ma è musica americana, proveniente dalla mente del cantante/chitarrista dei Trivium. La verve thrash-metalcore di quel combo qui non c’è, andando verso un Death metal che quando perde il lato estremo vira verso un progressive introspettivo e placido. E però Matthew Kiichi Heafy ha in effetti origini giapponesi da parte di madre, e a quella musica egli si è ispirato. In verità, ascoltando bene, l’oriente del Sol Levante non sembra presentissimo, si evincono solo degli spunti da quelle radici, poi molto è di matrice occidentale.

‘KAGUTSUCHI’ si scatena con la furia tipica del Death, ma sotto la strumentazione tipica del genere si percepiscono una serie di pennellate che raffinano l’andamento; il ritornello signorile a voce pulita si interseca fra le parti dure ammorbidendo con eleganza gotica l’insieme,  ma più avanti il cantato smette di essere screaming e una lunga parte senza distorsione si fa tradizionalmente prog; è uno dei pezzi migliori perché lo sono le diverse sezioni. Un altro episodio fortemente qualitativo è ‘IBARAKI-DOJI’ che viene enfatizzato da ritmiche sinfoniche, il basso è gestito qui per scurire la percezione e aumentare la dose di oppressione presente; quando arriva l’afflato calmo la verve sinfonica prosegue con violini sotto una chitarra melodiosa e una linea vocale suadente che culla. ‘KOMOREBI’ è un pezzo particolare, che inizia con un doom e una pesantezza triste, mentre la chitarra orientaleggiante è un fine cesello che guida la traccia in maniera ripetuta;

la parte delicata è quella che dà il maggior senso di introspezione rispetto ad altri pezzi del disco, con una leggera angoscia iniziale che la chitarra acustica poi porta coi violini verso una soave emozionalità; nell’insieme non è un episodio violento, è il più intimo, e l’assolo pare voler sintetizzare in pochi secondi l’essenza di questa forma interiore. Piuttosto strano trovare in questo lavoro non catchy, un brano invece orecchiabile e quasi pop-rock come ‘Ronin’, un po’ stonando nello staccarsi dal tema sonoro portante, anche se in realtà uno screamo acido si presenta improvvisamente, ma esso appare quasi un nonsense, e quella parte iniziale, e poi finale, si adopera a rovinare il disco, fortuna che dopo il quinto minuto la cosa diventa interessante, del resto è una song di circa nove minuti e non poteva fare la manfrina per tutto il tempo (la parte centrale in parte sembra ispirata a paesaggi mediterranei), ma il pezzo alla fine ha l’aria di un filler. C’è un momento teatrale nella seconda parte di ‘Susanoo No Mikoto’, che può essere preso ad esempio di come il musicista abbia idee diverse da utilizzare e non si fossilizzi su un’unica stilistica, sebbene sia chiaro l’orientamento di questa opera, voluto su un binario che mette in antitesi durezza e morbidezza.

Un lavoro concepito tanti anni fa, ma cambiato in corso d’opera, forse anche per responsabilità amicale del norvegese Ihsahn degli Emperor (ora solista) che entra a far parte di questa produzione. Va detto che in tale avventura anche i Trivium l’hanno aiutato, e che quindi possiamo pensare che non si sia di fronte ad un progetto che lo terrà lontano dalla sua band principale. L’album appare ispirato e regala un viaggio sia interessante che piacevole. La scelta, dentro le singole tracce, di tagliare nettamente le sezioni che le compongono, incollandole senza ponti che le fondino, lascia un po’ perplessi perché spesso la parte violenta e quella dolce sembrano non avere nulla a che fare fra loro. Siccome però ogni momento è bello, allora si passa sopra questa bizzarìa, ma non sembra che ci sia una connessione che il fruitore possa musicalmente capire (forse solo comprendere il testo potrebbe offrirne un significato). Per quanto riguarda le vocalizzazioni, la maggior parte del cantato estremo è uno screaming molto piatto che non caratterizza le differenze dei pezzi, raramente fornito di modulazioni che possano attirare, anche se momenti in growl o in andamento rauco a volte appaiono. A valere in maniera indiscussa invece è il cantato pulito. Qualcosa di Opeth, Borknagar e Barren Earth emerge qua e là, ma gli Ibaraki non sono la loro copia, hanno affinità ma concettualmente la gestione della mescolanza duro-morbido viene operata diversamente, in senso più estremo sia la cattiveria che il lato onirico. Forse un lavoro che andava messo meglio a fuoco, e però un disco che possiede un certo tono compositivo, con alcuni picchi valoriali,  nonostante le contraddizioni citate e alcune zone di calo.

Roberto Sky Latini

Hakanaki Hitsuzen
Kagutsuchi
Ibaraki-Dōji
Jigoku Dayu
Tamashii No Houkai
Akumu
Komorebi
Rōnin
Susanoo No Mikoto
Kaizoku

Matt Heafy – vocals / guitar
Corey Beaulieau – guitar
Paolo Gregoletto – bass
Alex Bent – drums