Gateway
Galgendood
Si può arrivare a pensare che ci sia qualcosa di più nero del nero? La risposta è sì, soprattutto quando si parla di musica e a maggior ragione se nel variegato mondo del metal estremo, la nicchia è quella che corrisponde al Doom/Death: un genere che in realtà non conosce crisi, forse proprio perché relegato ad una nicchia buia e marcescente che è in grado di sfornare dei gran bei lavori, proprio per la sua non commerciabilità non è sottoposto a pressioni e a necessità legate alle leggi di mercato: qui contano solo la passione e l’attitudine.
A qualche mese di distanza dall’uscita, vengo a presentarvi i redivivi Gateway, i quali tornano con un platter nuovo di zecca edito dalla attivissima Transcending Obscurity, etichetta che si muove nelle fangose paludi dell’ underground estremo e che ha dato una possibilità ai belgi Gateway e al nuovo arrivato Galgendood.Il progetto Gateway è in realtà frutto di un solo Mastermind, trattasi infatti di una one-man band e il suo ideatore risponde al nome di R, dietro cui si cela il polistrumentista Robin Van Oyen, che per questo disco si è avvalso della collaborazione di un certo MH per i momenti solistici.Come dicevo in apertura, la matrice di tutto è riconducibile al Doom/Death di quello più ossianico e con pochissime aperture melodiche, pertanto qui non troverete colori o momenti in cui potrete scorgere spiragli di luce: Galgendood è nero e melmoso come il fondale di una palude in cui tutto è in decomposizione, già dalle prime note potrete sentire l’odore di marcio raggiungere le vostre narici, sempre che riusciate a respirare dato l’elevato grado di anossia presente in questo disco.
Sembra quasi che il progetto Gateway voglia riuscire ad esplorare il vuoto, cercare la dimensione sospesa tra la vita e la morte riportando le sensazioni in musica e, nonostante questa sia decisamente concreta e monolitica, non rari sono i momenti in cui è facile perdersi in mantra psichedelici scanditi da un riffing circolare capace di scendere oltre la soglia degli inferi.Alla base di tutto c’è un chiaro richiamo al death metal più ossianico e old school rallentato fino all’inverosimile, tanto che la drum machine raramente è programmata sopra i 100 BPM e il tutto è coadiuvato da chitarroni ultra distorti e ribassati e “parti soliste” che vanno a sovrapporsi alle ritmiche creando atmosfere disturbanti e lisergiche, quasi a voler riprodurre le urla lancinanti che si potrebbero udire nei gironi più bui dell’inferno, mentre le vocalità è ultra cavernosa e spesso intellegibile, arrivando a sembrare più un’espressione bestiale piuttosto che un growling ma soprattutto sembra provenire al di là dei confini infernali, lì dove esiste solo il nulla ed l’oscurità perenne.
Pertanto Galgendood si muove alla stessa velocità di un treno merci carico fino all’inverosimile, costretto a viaggiare su rotaie completamente ghiacciate: basse velocità e pesantezza da vendere, il tutto amalgamato da una produzione che avvolge le composizioni come un nero sudario, un sudario che ha la densità e la pesantezza della lava i cui effluvi mortali sono rappresentati da cascate di riverberi ed eco ed accordature bassissime, mescolate alla perfezione per creare non solo un muro sonoro monolitico e spesso ma soprattutto per non lasciare alcun punto di riferimento a chi ascolta facendo in modo che possa perdersi nell’eterna oscurità: la nera coltre capace di schiacciare ogni anelito vitale e fungere da terreno su cui iniziare i rituali di un antico sabba, in grado di spingere l’uomo oltre il confine della ragione.
Non è affatto un disco per tutti, Gateway con questo album tende a sfidare la tenuta umana, tende a capire chi è in grado di proseguire il viaggio e chi invece, spinto dalla pesantezza e dalla totale mancanza di ossigeno, abbandonerà il cammino verso la dimensione del nulla.
Daniele “Darklordfilthy” Valeri