Dust – Dust
Nel 1971, a due anni dal primo album dei Led Zeppelin, quando ormai l’hard rock era un dato di fatto (nello stesso anno uscirono il “IV” dei Led; “Fireball” dei Deep e “Master of Reality” dei Black), uscì l’esordio dei Dust, gruppo statunitense che non ebbe il risalto mediatico dei connazionali Blue Oyster Cult; Grand Funk o B.T.O., più o meno coetanei; eppure nulla in meno di loro avevano musicalmente.
Dal suono totalmente americano, frizzanti e dinamici con buonissimi pezzi composti in due album qualitativamente in forma, dopo il secondo album ‘Hard Attack’ del 1972 la loro carriera finì, ma è uno di quei gruppi che successivamente è stato rivalutato dalla critica. Quest’anno lo ricordiamo nel suo cinquantennale. In tempi in cui si dà colpa al mercato attuale per l’affossamento di musiche di valore, i Dust sono uno degli esempi di come anche allora (ma lo vedremo di nuovo chiaramente con la N.W.O.B.H.M.) le realtà musicali potevano essere affossate pure quando valevano. In quel tempo in cui internet non esisteva, le case discografiche avevano grandi meriti come grandi colpe, e cercavano di direzionare la scena spesso non supportando l’Arte con la “A” maiuscola.Sette pezzi pieni di feeling, anche se definirli del tutto Hard è esagerato. Ma certo nel panorama di quel periodo vanno considerati completamente dentro l’alveo del rock duro. La chitarra sleazy della song blues “Goin’Easy” è tipica delle zone del sud sebbene il combo sia Newyorkese, ma anche l’apripista “Stone Woman” ha quella sonorità slide classicamente riconducibili a Molly Hatchet; Nazareth e Lynyrd Snynyrd. Anche “Chasin’ Ladies” ci riporta alle americanità aperte di quel periodo sebbene vi si respiri uno spirito britannico alla Who degli anni sessanta; e la chitarra avvolge con la sua preponderante fuoriuscita tipicamente da jam solista.
I riff duri di “Love Me hard” si sposano con un afflato più progressive, dove ad un certo punto si ascolta anche una chitarra acustica ritmica spagnoleggiante che porta in crescendo ad una espressività solista supportata da una batteria molto tonica, in una classica modalità settantiana che dal vivo ha il potenziale per essere portata all’estremo, con delle jam alla Grand Funk. La minisuite “From a dry Camel” tira fuori il lato psichedelico dei musicisti che così si legano a quegli anni sessanta appena passati; in qualche modo però c’è un senso che si accosta ai mostri sacri del momento con una parte strumentale che ricorda le cavalcate dei Deep Purple ma anche di Cream e, ancora una volta, di Grand Funk.
Più volte emergono suoni folk-soft acustici, ma in “Often Shadow felt” essi ne sono la base; qui c’è un rarefatto afflato tastieristico che in quanto rarità sonora del lavoro, è assolutamente necessario al momento del pezzo; in effetti ogni cosa studiata nelle composizioni, non solo questa, sembra non essere mai superflua. Per chiudere ecco lo scatenamento Hard-Rock’n’Roll di “Loose Goose”, elaborando quella musica in un modo che ricorda il suono futuro dei Blue Oyster Cult del primo e secondo album (1972 e 1973); una cavalcata strumentale che sicuramente avrà fatto bella figura nei concerti.
Questo album non ha l’anima molto pesante; l’anno dopo il gruppo entrò maggiormente nella vena dell’hard rock, inserendo anche uno spirito marchiato di epicità. Qui però il genere è già affrontato con insistenza anche se il passato del decennio sessanta emerge spessissimo. Basso molto invadente e superbamente di gran classe, con un virtuosismo che sostiene ottimamente la struttura di ogni canzone, in associazione ad un drumming che non ha nessuna intenzione di farsi solo collaterale.
Il senso blues è gestito in molto similare a quello espresso dai Black Sabbath, anche se in maniera addolcita. Il cantato piuttosto poco aggressivo, invece si rifà parecchio alle modalità inglesi degli Uriah Heep, con una certo carattere infantile che però non stona nell’insieme. Al di là degli accostamenti, la percezione globale è di una band molto personale che avrebbe fatto scuola se avesse resistito alle difficoltà; altri si appropriarono di quella cifra stilistica e la tramandarono con più successo. La copertina è in contraddizione coi suoni fluidi e puliti del combo, infatti la foto di scheletrici teschi dà un’atmosfera cupa ad un disco che invece possiede sonorità tutt’altro che scure; ma è in linea col moniker “Dust” (polvere). Invece i testi nulla hanno a che fare con i temi cupi dei Black Sabbath, cioè guerra o paura di Satana, quanto una descrizione della fiamma che brucia di desiderio per la donna, tipico anche dei Led Zeppelin prima maniera.
Questo è un album che appare musicalmente ancora fresco nonostante i decenni di storia metal trascorsi. Un disco che va annoverato tra i prodotti più significativi della musica che ci piace. Tutti rimarranno nel mondo della musica. Il cantante ed il chitarrista saranno produttori e session man. Marc Bell non è altri che Marky Ramone, secondo batterista dei Ramones (dal quarto album ‘Road to Ruin’ del 1978), che qui coi Dust gioca con il drumming in maniera dinamica molto più che suonando il punk). Un disco commovente per la sua eruzione che suona spontanea, commovente anche alla luce di una ispirazione artistica non riconosciuta dalla storia come avrebbe dovuto.
Roberto Sky Latini
Kama Sutra Records
www.kennyaaronson.com/home
Stone Woman
Chasin’ Ladies
Goin’ easy
Love Me hard
From a dry Camel
Often Shadow felt
Loose Goose
Richie Wise – vocals / guitars
Kenny Aaronson – bass / guitars
Marc Bell – drums