Dio
Holy Diver
Un uomo, un leader dal carattere dolce e aspro a seconda dei momenti. Uno che ci credeva, che non voleva rimanere dietro le quinte mentre lavorava coi collaboratori, e al tempo stesso disponibile con i fan in maniera molto gentile. Una persona di carattere, carattere che emerge chiaramente dalla musica che ha vissuto in modo sanguigno. Dopo aver suonato con alcuni musicisti fondatori dell’Hard Rock (attraverso le due storiche formazioni, Rainbow e Black Sabbath), deluso dal comportamento di Toni Iommi e soci che lo defenestrarono, Ronnie tornò in campo più agguerrito che mai, sfornando un succulento piatto metallico.
E da quell’esordio solista, con un album già sostanzioso e pregnante nonostante fosse il primo di tale carriera, nacque l’autonomia di una figura mito. Celebriamo quarant’anni da quel fatidico nuovo inizio.L’album parte alla carica con lo speed ‘STAND UP AND SHOUT,’ ottimo per iniziare anche i concerti; riff asciutto e mordace, non originale nella sostanza, ma bellissima canzone degna del genere in cui la voce immette una melodia impattante e in cui l’assolo è lama affilata, a rendere subito chiaro che qui si suona puro Heavy Metal. Ma immediatamente dopo arriva la title-track che, come seconda traccia, innalza già il livello artistico in cima alla vetta: ‘HOLY DIVER’, brano da dieci e lode. Un tipico middle-time del suo stile, il quale tra riffica e ugola apre alla maestosità epica; una melodia estremamente comunicativa, piena di pathos regale. Il ritmo varia con modalità tali da sottolineare le diverse parti, melodica e d’assolo. Ma il capolavoro che vola oltre la lode è ‘DON’T TALK TO STRANGERS’, la più bella song della sua carriera solista, davvero quella col maggior tasso epico, con enfasi e pathos da re del metal; il suo intro soft si lega magicamente al successivo ardore cattivo del cantato che s’insinua con calore focoso rovesciandosi sull’ascoltatore; si tratta di una di quella canzoni che volano oltre la dicitura di ‘canzone bella’, per farsi pura Arte, ed è in questo brano che l’interpretazione virile di Ronnie tocca gli apici della durezza, in particolare con l’allungamento del vocabolo ‘Die’, passaggio dall’emozionalità incomparabile. Il tempo medio di ‘SHAME OF THE NIGHT’ viene caricato dalla sua voce in maniera estrema, gravida di emozioni imponenti, ma anche con inflessioni sfumate che la rendono evocativa, terminando con riff dark che ne ampliano il senso misterico.
Sia chiaro che non esistono filler, tutto funziona meravigliosamente, ma possiamo dire che c’è una divisione tra pezzi maggiori e minori. Tra i minori rientra ‘Gipsy’ che ricorda molto i ‘Rainbow’, pezzo diretto e cadenzato in cui la tonalità di Dio si alza, per una tosta compatta espressività, e in cui si mettono in mostra comunque le abilità di scrittura generali, compresa l’aggressività di fondo. Anche ‘Invisible’ è vicinissima ai Rainbow degli anni settanta, ma stavolta con più alta emozionalità atmosferica, e interessante si rivela la verve dell’assolo. Ancor più bella ‘Caught in the Middle’ che è solare e fluida, dalla scrittura felice, dove Ronnie canta con agile leggerezza. Un middle-time alla Dio con ‘Straight to the Heart’, meno emotivamente intrigante di ‘Don’ talk…’, ma comunque pieno di tonica vibrazione. Nonostante il grande successo di apprezzamento che la canzone ‘Rainbow in the Dark’ ha ricevuto nel tempo fra il pubblico, essa permane un brano minore per quanto caratteristico e funzionale; è sicuramente di stile personalissimo, ma nella ricerca dell’orecchiabilità Ronnie non dà mai il meglio di sé. Egli ci proverà ancora in futuro, ma le sue cose migliori sono sempre quelle più corposamente hard and heavy, dall’afflato duro o medio-duro, oppure quelle parti che si fanno soavissime.
Non si tratta forse di una album eccelso, in quanto il successivo ‘The Last in Line’ e il quarto ‘Dream Evil’ forse sono migliori. Ma questo qui già esprime grande valore. La sensazione che si ha spesso, è che Ronnie scelga chitarristi che siano sotto il diretto comando artistico del leader, cosa che invece per Ozzy non avviene, lasciando in quel caso molta più mano libera, ed in effetti i chitarristi che suonano con Ozzy sembrano sempre più bravi, questo fermo restando però che anche quelli che lavorano con Dio non sono certo scarsi. Anzi, sono tutti musicisti dal forte profilo artistico. E del resto in ‘Holy Diver’ tutti partecipano alla scrittura (da solo Dio scrive appena due tracce, anche se si tratta dei due apici). Per ciò che riguarda l’ugola, ancora una volta essa esprime come prima nei Rainbow e poi coi Black Sabbath, la lirica impostazione maschia, dall’interpretazione sentita e teatrale, che diviene sua iconica caratteristica; gli esempi di ‘Gates of Babylon’ dei Rainbow e ‘Die Young’ dei Black Sabbath sono utili a capire quanto si sia portato dietro realizzando i propri dischi solisti. La carriera in autonomia, insomma, si presenta come una diretta continuazione dello stile epico del suo stesso passato, ma con accenti più insistiti che si impongono senza remore; è il dominio quasi assoluto della voce. I tempi medi sono i pezzi che maggiormente si confanno all’artista, e che lo rendono unico nel suo genere. Questa carriera lo porterà a divenire uno dei personaggi più importanti del panorama metal. Potremmo affermare che Ronnie James Dio sia stato il Pavarotti del Metal, dando al genere rock ciò che il nostro tenore ha dato alla lirica. Alla sua morte avrebbe meritato di comparire nei telegiornali di tutto il mondo, cosa che non è stata, almeno in Italia. Noi metallari lo sappiamo e come sempre accettiamo di essere i nerd della situazione. Vaffanculo! Ascoltiamoci per l’ennesima volta Dio, che aveva, ed ha, una voce divina.
Roberto Sky Latini
Mercury Records
www.ronniejamesdio.com
Stand up and Shout
Holy Diver
Gipsy
Caught in the Middle
Don’t talk to Strangers
Straight to the Heart
Invisible
Rainbow in the Dark
Shame on the Night
Ronnie James Dio – vocals
Vivian Campbell – guitar
Jimmy Bain – bass / keyboards
Vinny Appice – drums