Deep Purple

Made in Japan

Dal Giappone arrivò cinquant’anni fa uno storico doppio album dal vivo. Non era in programma ma dopo avere ascoltato le registrazioni, gruppo e casa discografica decisero che doveva diventare un disco ufficiale data la qualità tecnica e la magistrale esecuzione della band. E in effetti sì, possiamo considerarlo il live perfetto e quindi forse il miglior live mai ottenuto nel mondo del rock. Perfetto per i suoni, perfetto perché si sente la dimensione live, perfetto perché contiene canzoni bellissime, perfetto perché le performance sono ineccepibili: perfetto perché tali caratteristiche si trovano tutte insieme nel disco. E non è un disco di canzonette ma di talenti virtuosistici estremamente raffinati che posseggono anche carica e potenza attraverso una tracklist di alto livello. Un live senza difetti, un live inteso qualitativamente un “assoluto espressivo”. Uscito l’8 dicembre 1972, esso fu il risultato della tournèe nipponica di quattro giornate, in cui si scelsero le versioni di brani non necessariamente migliori dato che pare fossero perfette anche le altre, ma semplicemente una scelta tra le tante. La differenza tra le versioni dipese dall’abitudine del gruppo di usare l’improvvisazione, per cui ogni concerto presentava variazioni sul tema sempre diverse da quelle in studio. La casa giapponese voleva un album che fosse solo per il mercato orientale, la band non si sentiva pronta per essere registrata, e così i musicisti accettando che fosse solo un prodotto locale rimasero comunque piuttosto spontanei e liberi. La tecnologia non era tanto avanzata e, dopo, tutti rimasero stupiti del suono ottenuto, complimentandosi per la bravura tecnica dei giapponesi. Fu una fortuna, dato che l’album divenne un successo economico e  perché oggi quel doppio vinile è divenuto “mito”. Solo sette brani ma gestiti in maniera incredibile, tanto da rendere il lavoro esaustivo, in grado di saziare la voglia di musica dell’ascoltatore che con questo disco può vivere un viaggio davvero magico.

SIDE A (primo vinile). Apre le danze il muro compatto di ‘HIGWAY STAR’, una song che è già un Power Metal moderno, che contiene forma e colore heavy; in cui la struttura diverrà forma basica per tante band anni ottanta. Qui l’ugola e molto virtuosa con i suoi acuti, e la chitarra degli assoli ha fisicità elettrizzante che si mescola con gusto ad una verve melodica d’eccellenza. Ma il virtuosismo canoro aumenta d’intensità con l’impossibile ‘CHILD IN TIME’ che pretende una serie di acuti ripetuti molto faticosi; eppure il pezzo è molto più che urla di valore, tutta la parte soft è un gioiello di espressività tra voce modulata, lavoro sui piatti e tastiere molto originali, senza contare il crescendo psichedelico pieno di potenza e suggestioni, e i due assoli tastiera-chitarra hanno la fluidità di chi sa come si gestisce il proprio strumento. Questo è uno dei pezzi più intransigenti che abbiano mai composto i Deep Purple, un unicum anche del mondo hard-rock. E’ il lato maggiormente d’impatto e così si capisce subito, per chi non lo avesse ancora capito al tempo coi dischi precedenti, di che pasta fosse fatto questo combo.

SIDE B (primo vinile). La seconda facciata diventa invece iconica per la presenza di ‘SMOKE ON THE WATER’ che è divenuto il pezzo rappresentativo per eccellenza, non solo dell’hard-rock, non solo del rock, ma della musica in senso generale. Lo conoscono anche i lontani dal metal e anche chi non conosce i Deep Purple. Il riff famosissimo è forse inscritto nei nostri neuroni perché è sorprendente come sia rimasto impresso in chi lo ha ascoltato, e come sia immediatamente assimilabile. Una song di medio ritmo, cadenzato e ballabile come lo ballavano gli hippy, ma a diventare iconico è stato anche l’assolo della sei-corde ben più evoluto di quello da studio, di grande fascino melodico e scorrevole come un ruscello di acqua pura. Ma anche il finale è diventato famoso, costruito per essere un termine ad effetto, nel gioco di rimandi tra chitarra e tastiera. Brano che come ‘Higway Star’ non manca mai nella scaletta dei concerti. Subito dopo arriva l’assolo di batteria inglobato nella traccia ‘The Mule’ che un rockettaro di solito paragona alla song dei Led Zeppelin ‘Moby Dick’, sia perché si tratta di un brano fatto apposta per contenere l’assolo sebbene quella dei Led sia nata come strumentale a differenza di quella dei Deep, sia perché al tempo i due regnanti hard erano loro due ed era impossibile evitare tale diatriba. La song è già sin dall’inizio segnata dalla dinamica del drumming che poi diventa personaggio principale per ben sei minuti e ventotto secondi su un pezzo da nove e ventuno.

SIDE A (secondo vinile). Il terzo lato è dedicato invece al lato swing della band in cui blues e rock’n’roll sono l’anima base dei musicisti. Due brani che presentano la facciata divertente dell’album. Brano non duro ma pieno di suadente accattivante esuberanza, ‘STRANGE KIND OF WOMAN’ è un frizzante boogie che permette al pubblico di scatenarsi a ritmo. Al centro c’è il duetto chitarra-voce, non presente nel singolo pubblicato da studio, che fa tornare centrale il virtuosismo canoro di Gillan il quale fa meravigliosamente il verso alla chitarra, duettandoci, e si arriva al prolungato acuto assassino che  precede il finale vero e proprio. Se Halford ha avuto un esempio che avrebbe potuto copiare, questi è proprio Gillan. A seguire il vero rock’n’roll prende forma sotto le sembianze di ‘LAZY’ che è tutto, musicalmente, meno che pigro dati gli accenti caratteriali. L’intro di tastiere è un pezzo a sé, ma poi il ritmo prende il sopravvento e chi non avesse prima approfittato di ‘Strange kind of Woman’ non ha scampo con questo contagioso brano. Se tastiera e chitarra si prendono uno spazio allargato, in questa canzone però si inserisce anche l’armonica per rafforzare la sensazione rockenrolleggiante già forte di base. Ma non mancano le curiosità e la chitarra ci infila anche una citazione di musica classica, un piccolo ma famoso frammento della ‘Swedish Rhapsody’ di Hugo Alfven, del resto Blackmore  ha sempre avuto propensioni sinfonico-classiche.

SIDE B (secondo vinile). A concludere la battaglia concertistica viene scatenata ‘SPACE TRUCKIN’’, il cui incedere serioso e spaziale aveva già avuto l’accenno nell’intro di ‘Lazy’, e l’intro qui può essere visto come prosecuzione di quella. E al giungere del riff netto e pesante si inserisce anche un ritmo ossessivo e incombente che spinge subito il pezzo verso un roccioso anthem che il ritornello urla duro metallicamente parlando e non solo per la voce tirata di Gillan. All’interno troviamo una chitarra ruvida e poi un dialogo tra basso schizzato e batteria. Questa sezione heavy poi si trasforma in una scorribanda, jammando tra tecnica ed atmosfere psich che avvolgono il pubblico partendo con un assolo tastieristico pieno di pathos, lasciando che Lord impazzi libero e innovativo, alla stregua di Keith Emerson; altra diatriba che non è stata risolta nel riconoscere chi sia stato il più grande fra i tastieristi rock. Questa tastiera arriva ad un punto in cui si alza il tono tagliente descrivendo una astronave, tema della canzone. Quando Lord lascia il posto a Blackmore l’astronave continua ad essere presente, poi però ci si calma con un suono da pseudo-violino classicamente ottenuto con il potenziometro del volume e quindi riecco gli assoli finali concludere in magniloquenza un brano già di per sé di grande potenza.

I suoni sono più moderni ed energici rispetto a quelli che escono fuori dai dischi in studio. Il basso è assolutamente indispensabile ad addensare l’insieme, rendendo caldo ogni passaggio. Chitarra e tastiere sono importanti quanto la voce, l’essenza della band è strumentale, nonostante la grande presenza del cantante. A volte però l’hammond sembra più duro ed incisivo della chitarra, che spesso preferisce eleganti inserti di classicismo alla vibrazione rock. Di certo il blues ha una enorme fetta di rappresentanza, ma l’hard-rock è un elemento ormai codificato e con una propria dignità. Il 1972 è anche il periodo in cui sia Black Sabbath, Led Zeppelin e Uriah Heep, tutti già con quattro dischi alle spalle, avevano spiegato bene ed in maniera esaustiva cosa fosse tale genere musicale; lezione imparata da coloro che stavano per mettere su la seconda ondata hard (Ufo; Scorpions; Thin Lizzy; Aerosmith; Queen; Judas Priest; Kiss; AC/Dc; Ted Nugent). La formazione Mark II con questa opera mastodontica, diventa leggendaria e punto di riferimento delle generazioni a venire, più che le formazioni con Coverdale o con Steve Morse. Nessun live ha avuto più la stessa considerazione o la stessa influenza sulla realtà musicale rock. Quattro geni che in un momento favorevole hanno avuto tutto in linea perché questo disco prendesse forma, pur contro la loro volontà; se vogliamo possiamo considerarlo destino, ma un destino guidato dal dono dell’ispirazione artistica, da una altissima consistenza valoriale di idee e di tecnica esecutiva. Un disco che ha testimoniato lo stato in salute del momento e fotografato una condizione di grazia, che il caso ha voluto fosse tramandato ai posteri. Un live che vale quanto una creazione da studio.

Roberto Sky Latini

Purple records
www.deeppurple.com

Vynil 1
Side A
Highway Star (studio album: ‘Machine Head’ 1972)
Child in Time (studio album: ‘In Rock’ 1970)

Side B
Smoke on the Water (studio album: ‘Machine Head’ 1972)
The Mule (studio album: ‘Fireball’ 1971)

Vynil 2
Side A
Strange Kind of Woman (single: 1971)
Lazy (studio album: ‘Machine Head’ 1972)

Side B
Space Truckin’ (studio album: ‘Machine Head’ 1972)

Ian Gillan – vocals / harmonic
Ritchie Blackmore – guitar
Jon Lord – Keyboards
Roger Glover – bass
Ian Paice – drums