At The Gates

The Nightmare Of Being

Il Melodic Death svedese della scena di Goteborg torna, con un settimo lavoro, per mano decisa e sicura del gruppo super-rappresentativo del genere. Ecco il nuovo degli At The Gates che rispetto agli esordi presenta un’anima più tecnica ed evoluta.

C’è una flessibilità Progressive che rende sfaccettata questa escrescenza discografica di eccellente qualità. Dopo tre anni dal full-lenght precedente i fan possono ascoltare un prodotto che non delude, che è in linea con lo spirito vero del combo, ma anche parzialmente differente nella forma rispetto al passato.La prima traccia ‘SPECTRE OF EXTINCTION’, assolutamente valoriale, da subito imprime una scossa dura all’album, con una bramosia d’esprimersi che è calda e ferale. La carica d’assalto prosegue con alcune tracce successive. In particolar modo raffinata, la violenza fuoriesce dalla formosa ‘TOUCHED BY THE WHITE HANDS OF DEATH’. Spesso il senso melodico del genere che suonano è quello che come al solito prevale, e nella title-track ‘THE NIGHTMARE OF BEING’ si racconta bene la varietà ideativa del disco pur nella sua brevità (meno di quattro minuti), con una oscurità e una flessuosità che sanno creare ambientazione piena e profonda.

Il risvolto melodico e progressivo è netto in ‘GARDEN OF CYRUS’ che si carica di pathos, anche grazie al sassofono, ma c’è pure una crudezza data dalla voce quasi angustiata. L’intro morbido e sinfonico di ‘THE FALL INTO TIME’ allunga un po’ la traccia rispetto alle altre, ma l’essenza che emerge dall’intero pezzo è un riuscito calice di vibrazioni introspettive, una leggera anima jazzata ed un cuore pulsante, con tanti momenti in successione del tutto coerenti ma diversi. Diversa dalle altre song risulta ‘Cosmic Pessimist’ per il suono più liquido, ma è l’unico episodio debole del disco, troppo incentrato su un parlato inconcludente; di bello possiede solo il finale, prima col riffing e poi coi violini soft.La band ha dimostrato di non rimanere staticamente invischiata nel proprio glorioso passato. Molte volte si rimane, come fosse una volontà ferrea, in pochi minuti di scrittura, anche se i pezzi sembrano dare la possibilità di aggiungere ampliamenti che sviluppino i cenni artistici creati.

In realtà il loro genio sta proprio nel riuscire a dire molto in pochi minuti. Gli elementi interessanti sono più d’uno; che essi vengano dal pianoforte, dal sax, o dall’embricarsi dei vari strati sonori, sono sempre solidi, cioè arrivano al punto senza perdersi divagando. Nonostante la suadenza eterea di alcuni istanti, l’insieme non è mai rarefatto, anzi c’è molta corposità; gli strumenti e la voce si compattano con le parti più pesanti, ma rendono ben materiali le tumefazioni più soffici. Si percepisce anche una urgenza espressiva notevole, che è curiosa per degli adulti ormai maturi da tempo, più o meno cinquantenni. Quindi un risultato perfetto? No, questo no, ma solo perché in alcuni casi i brani, come dicevo, non sembrano completi lasciando adito a stimoli verso aperture ulteriori. Dentro questo concetto si può anche immaginare che assoli chitarristici o di sassofono avrebbero potuto trovare un maggior spazio, e non sarebbe stato un danno. Ad ogni modo si tratta alla fine di un viaggio che ripetuto nell’ascolto regala emozionalità sensoriali ogni volta.

Roberto Sky Latini

Century Media
www.atthegates.se

Spectre of Extinction
The Paradox
The Nightmare of Being
Garden of Cyrus
Touched by the white Hands of Death
The Fall into Time
Cult of Salvation
The Abstract enthroned
Cosmic pessimism
Eternal Winter of Reason

Tomas Lindberg – vocals
Jonas Stalhammar – guitar
Martin Larsson – guitar
Jonas Bjorler – bass
Adrian Erlandsson – drums

Pawn Hearts

Van Der Graaf Generator

Il Progressive Rock dei primi anni settanta era pregno di sperimentazione e di sonorità avanguardiste che si espandevano in approcci sia orecchiabili, sia toccando variabili meno ortodosse. Nel tempo quei suoni sono diventati patrimonio condiviso, ma forse oggi si sono relegati nel campo dell’underground, non hanno più il senso popolare di allora. La cosa strana è che alcuni dischi considerati poco commerciali oggi, allora trovavano un mercato meno taccagno, vendendo tra un pubblico più curioso ed aperto, diventando così mainstream anche essendo un genere elaborato. Fu così che Yes, Pink Floyd e Genesis trovarono successo nonostante i loro passi alternativi. Fu il 1971 però l’epoca in cui il progressive iniziò a sfornare composizioni più mature e profonde, in cui si cominciò a far progredire i sensi in modo ampio. I Van Der Graaf Generator, più vicini agli eclettici King Crimson che al più accattivante stile degli Yes o dei Pink Floyd, sfornarono un lavoro come ‘Pawn Hearts’, il loro più importante successo tra il pubblico (particolarmente ben accolti in Italia), ma che è anche davvero il loro miglior lavoro. Ai giorni nostri suona ancora sperimentale perché questo tipo di sound è meno accessibile rispetto a quello delle altre prog-band, ormai entrate nelle orecchie come patrimonio comune e familiare da non apparire più sperimentali. Ma i King Crimson e i Van Der Graaf Generator, nella loro migliore forma, talvolta non sono stati “suoni e canzoni”, spesso possono essere visti come produttori quasi di astrazioni, che oggi ascoltiamo sì normalmente ma non così in modo esteso fra i fruitori. Questo disco appare ancora attualmente come un viaggio dall’atmosfera futuribile, mentre invece è musica vecchia di cinquant’anni; cinquantennale quindi, anniversario di un album importantissimo, pubblicato nell’ottobre del 1971.

La track-list è composta da tre suite e da una strumentale, unica a durare meno di tre minuti, quest’ultima però fu inclusa solo nella versione americana. ‘LEMMINGS’, di quasi dodici minuti,  è sicuramente un pezzo grandioso, modulandosi tra passaggi soffici e tonicità che arrivano anche improvvisamente come un sobbalzo, sempre emergendo con una estrema intensità espressiva, a volte con flessuosa malìa, talvolta eterea, altre volte con martellante e fisica ossessività.  Se l’iniziale pianoforte di ‘MAN-ERG’ introduce ad una melodia più fruibile e orecchiabile, e qui la vocalità è fortemente vicina a quella di Bowie (con la sua stessa anche tipologia di scrittura formale), quasi al terzo minuto le connotazioni cambiano riportandoci ad una esasperazione espressiva che si lega al senso sperimentale del primo brano, e quando ci si calma verso un ritmo bluesato, con le tastiere e la voce si utilizza una impronta teatrale che enfatizza il suo andamento. L’assolo di sassofono ivi contenuto, è dapprima sinuoso, denso, ma attorniato da strumenti irrequieti, e poi si fa nervoso, guidando però verso un cantato soft che riporta all’inizio brano; sono oltre dieci minuti di pregnanza artistica che ha senso più compiuto rispetto alla prima traccia, usando sì anche dissonanze ma gestendo più l’atmosfera che la stravaganza. Ben fino a ventitré minuti giunge ‘A Plague of Lighthouse Keepers’ divisa in dieci segmenti; in questa song si passa da una avvolgenza spaziale da film di fantascienza, ad una parziale incombente oscurità, per poi passare ad un rock più classico, successivamente in modalità “scompiglio”, e ancora in un mood dolce per infine ritmare una accensione schizoide.  ‘Theme One’, la cover presa dalla discografia di George Martin, ex produttore dei Beatles, si dipana senza eclettismi, elegante ma frizzante, ariosa; chiaramente si sente il senso di sigla che l’autore gli aveva dato visto che era stata scritta per la BBC; i Van Der la usarono come singolo, ma è lontana dal carattere dell’album, ed infatti va intesa solo come presenza promozionale.

Gruppo inglese, in una epoca dove la Gran Bretagna aveva fatto emergere i nomi tutelari di tutto il rock, da quello più folk-blues a quello più hard, i Van Der si trovano a combattere la loro battaglia musicale con lo stesso spirito evocativo degli altri, senza temere rivali, e lo fanno con decisionalità segnata da una forte personalità,  realizzando un maestoso album. La voce ha qualcosa che la accomuna a David Bowie, lo stesso Bowie in alcune sue musiche sembra essere vicino a certe atmosfere dei Van Der Graaf. Ma nei Van Der si usa una declinazione rock che tocca spesso anche il Jazz. Ogni traccia qui dentro vive di sezioni che apparentemente sono distanti l’una dall’altra dal punto di vista estetico, ma l’insieme regge con un fascino che sembra far coesistere, senza fallo, le diverse sfaccettature sonore. Se le idee vogliono essere innovative, però l’effetto finale è di grande comunicatività, provvedendo ad una emozionale sensibilità. Oggi siamo abituati alle dissonanze, ma allora erano un punto a favore della musica alternativa, e davano un senso “altro” di cui non si poteva fare a meno. Le tastiere suonano in modi diversi nel loro essere elementi importanti, e importante con la stessa incisività risulta il sax; entrambi gli strumenti sono fortemente caratterizzanti la proposta. La chitarra è personaggio minore. Le esacerbazioni vibrano insieme ad una presenza di spirito che testimonia come tutto sia ottimizzato, non lasciato al caso. C’è intelligenza ideativa ma anche un alto livello di tecnica. Questo album è un fondamentale pezzo del puzzle Progressive sebbene i King Crimson abbiano musicalmente detto di più in questa modalità espressiva, però se il gruppo è “minore”, non lo è questo disco che contribuisce in modo sostanziale ad aumentare il peso qualitativo degli anni settanta. Album  geniale.

Roberto Sky Latini