Intervista agli Zephiro
peril nuovo disco Baikonur
a cura di Davide Tosello
Ciao ragazzi, vedo che le vostre influenze musicali spaziano in un campo molto vasto. Chi, tra i vari gruppi o singoli, è stato davvero determinante per la vostra musica e perché?
Claudio Todesco (chitarra): Personalmente l’influenza più incisiva è stata la new wave e il post-punk degli anni Ottanta, sia perché li ho vissuti, pur se piccolo, e sia perché li ho riscoperti dopo averli magari anche un po’ snobbati. Non ne colsi in tempo reale l’innovazione che diedero dopo un decennio di assoli, suite, progressive e psichedelia da me altrettanto amati. Non posso non citare anche gli anni Novanta italiani che a mio avviso è stato il momento più florido a livello di proposte nel nostro paese. In ordine sparso: Tears for Fears per l’arte dell’arrangiamento, Litfiba e Diaframma per i contenuti e l’autenticità, Franco Battiato e Garbo per le liriche e le atmosfere, Sad Lovers and Giants, The Cure, Bluvertigo, Indochine, Interpol, Talk Talk e The Sound.
Leonardo Sentinelli (Batteria): Anche le mie influenze sono variegate, dagli ascolti dei miei genitori, in primis i Tears for Fears e il Banco del Mutuo Soccorso, alla mia ricerca personale che è sfociata ad esempio negli Editors e nei White Lies. Dai nostri brani forse non arriva direttamente ma sono anche un grande ascoltatore dei Red Hot Chili Peppers.
Quanto sono importanti, per voi, il testo di una canzone e quanto la musica?
Francesco Chini (voce, basso): È un tema intorno al quale ragioniamo spesso anche tra di noi. Il punto fermo e certo è che per noi la musica è sempre la guida umorale ed emozionale di qualsiasi cosa scegliamo di dire con un brano. Da questo assunto non si scappa.
Sul versante dei testi, invece, abbiamo attraversato fasi differenti. Quando abbiamo iniziato il nostro sentire era in controtendenza con la dialettica italiana che ti porta quasi inevitabilmente a gravitare intorno al cantautorato, e perciò ci siamo rifugiati a lungo nel modello inglese largamente giocato sulle assonanze e sul dominio del “deve suonare bene”.
Recentemente, però, abbiamo iniziato a rivedere questo approccio, rivalutando l’importanza anche del significato oltreché del significante. E probabilmente non esageriamo nel dire che questo ha letteralmente fatto rifiorire la nostra ispirazione e voglia di ricercare, cosa che speriamo di essere riusciti a trasmettere con Baikonur.
Cosa evoca la vostra musica in particolare e quale impatto pensate abbia l’atmosfera delle vostre canzoni su chi le ascolta?
Francesco Chini (voce, basso): Se pensiamo a cosa sono oggi le modalità di fruizione della musica da una parte, e dall’altra la personalizzazione quasi obbligatoria dell’autore nella scrittura, uno degli obiettivi che siamo più fieri di continuare a perseguire con ostinazione è quello di evocare. Negli anni abbiamo imparato che ciò che davvero rende irresistibile una storia ai nostri occhi è il suo tratteggio, il modo apparentemente miracoloso in cui le sue maglie si allargano per accogliere l’unicità del nostro percorso fino a farci accedere al suo vero segreto, l’immedesimazione. Un obiettivo che noi crediamo di poter raggiungere solo restando sulla soglia dei nostri racconti, senza metterci al posto dell’ascoltatore. Perché trovare la sua posizione in quella storia è un potere che spetta a lui e a lui soltanto.
Cosa ne pensate sul binomio musica – poesia: è inscindibile o lo si può separare?
Francesco Chini (voce, basso): Crediamo sia una questione più strettamente letteraria che artistica in senso allargato. È la letteratura (anzi, forse più che altro la critica letteraria) a sottintendere l’idea che la poesia possa essere chiamata davvero tale solo quando codificata dagli stilemi che ci permettono di trattarla come un genere. Il nostro approccio è più istintivo: anziché chiederci quanto i nostri brani possano somigliare a delle poesie, preferiamo che l’epica poetica sia il colore che usiamo per riempirli.
La Letteratura in genere è da sempre importante per la musica e i suoi diversi generi quali, ad esempio: il rock, il pop, il blues…Avete qualche riferimento in particolare?
Claudio Todesco (chitarra): Negli ultimi anni ho apprezzato molto Valerio Evangelisti con il suo immaginario fatto di mondi lontani e paralleli che si intrecciano e Bruce Chatwin viaggiatore che ci propone una letteratura di viaggio. Non ho mai riflettuto su quanto possano aver inciso nella scrittura dei brani ma in ogni modo la letteratura ci influenza sempre poiché mentre leggiamo la nostra fantasia è all’opera nell’immaginare luoghi, volti e atmosfere; è un processo che avviene al contrario proprio nella scrittura.
Se doveste darvi un titolo di una canzone, quale sareste?
Claudio Todesco (chitarra): “Mad World” nella versione originale dei Tears for Fears. Percepiamo il mondo come pazzo ma la pazzia spesso è un punto di vista. Se invece fosse una nostra canzone allora non esito a dire “Cosmorandagio” che a mio parere è il brano che racchiude un po’ tutto il nostro mondo e il nostro immaginario.
Cosa pensate, in tutta sincerità, della scena underground italiana? Cosa vi piace in particolare?
Francesco Chini (voce, basso): Al di là della frammentarietà tutta italiana che ne abbiamo spesso criticato, per il resto ne pensiamo tutto il bene possibile, come di ogni altro luogo di resistenza. Perché la nostra scena underground questo è: un luogo di resistenza al franare della memoria e al dilagare non tanto e non solo del brutto quanto del facile, della resa al “basta che funzioni”. È soprattutto questa tenacia e questa voglia prepotente di autenticità la cosa da cui siamo maggiormente ammirati e ispirati.