Yes

Mirror to the Sky

Inutile fare le lodi per l’ennesima volta  ad un gruppo immenso, forse da considerare la più grande realtà prog della storia. Lo accenniamo solo per sottolineare che quella grande band oggi non esiste più, e non esiste da anni.

Ma ciò non significa che l’eredità in qualche modo non sia presente, che essa non apporti nulla; quando i britannici Yes decidono di uscire con un nuovo lavoro portano comunque con sé un bagaglio significativo, sia per coloro che lo costruirono (la famiglia del passato più mitico si è ridotta al solo Howe, e anche in maniera sostanziosa vi riconosciamo Downes), sia per le nuove leve, ora nella formazione, che comunque si sono abbeverate a quella fonte. Certe qualità odierne non sarebbero possibili senza l’esperienza e l’avventura del passato. E questo nuovo capitolo, pur nella diversità formale, possiede tante luci che dipendono in qualche modo dai fasti lontani. Non c’è l’esplorazione innovativa e avanguardistica di una volta, ma c’è l’attitudine di chi sa mettere a frutto con creatività moderna gli spunti di un sound antico, sapendo gestire le capacità acquisite. Va detto che gli ultimi membri sanno portare la loro bravura a livelli più che accettabili, ma si sente che spesso il carattere di Howe prevale, sebbene con misura, lasciando certe libertà espressive anche gli altri, come ha riferito il cantante nelle interviste, dicendo di essersi trovato abbastanza libero. I musicisti storici avevano una qualità, erano scrittori alla pari e tutti con una genialità estrema, e le loro singole concezioni compositive emergevano con chiarezza prepotente, in una qualità che qui naturalmente manca. Eppure il risultato è particolarmente riuscito, prendendo le distanze dai due lavori precedenti che avevano molto deluso. I molto addomesticati ‘Heaven & Heart’(2014) e ‘The Quest’(2021) sembravano compitini ben riusciti che non avevano smalto, in una semplificazione che si accontentava di costruire motivetti orecchiabili poco pregnanti (con pochissime eccezioni). I due full-lenght suonavano fiacchi, il che, considerando il gruppo di cui stiamo parlando, fu davvero avvilente per i fan. No, oggi gli Yes hanno risalito la china; se quelli erano senza virtuosismi, questo ne ha diversi, se quelli erano statici, questo è dinamico e variegato, se quelli erano soporiferi e deboli, questo è frizzante e tonico.

L’album si conforma di due cd. Il primo è l’album, mentre il secondo sono le tre bonus-track.

Primo CD.  ‘CUT FROM THE START’ fa partire subito l’ascolto con qualcosa di ritmicamente congruo, con il basso in prima linea come da tradizione tipica della band; il brano vive di quel tipo di verve che si impone usando la tonicità più rock che caratterizzò gli Yes rispetto al resto del progressive delle altre vecchie glorie come Genesis e Pink Floyd. Si tratta di uno degli episodi meglio riusciti del disco. La solare ‘ALL CONNECTED’ si rende più moderna e brilla per il carattere che si fonde con l’AoR, un po’ come facevano gli Asia, ma senza quella troppa leggerezza che banalizzava i brani; si basa molto di più sul cantato ma sotto si percepisce una ricchezza strumentale che l’arrangiamento valorizza con abilissimo gusto estetico. La title-track ‘MIRROR TO THE SKY’ è una lunga suite di quasi quattordici minuti che racchiude un po’ del fascinoso schema compositivo dei vecchi Yes, legando fra loro parti diverse che però riescono efficacemente a divenire un unicum perfettamente integrato. Troviamo sia all’inizio che nel finale una serie di evoluzioni strumentali, più o meno dure a seconda del bisogno, con una raffinatezza che ha sempre contraddistinto l’operato di questo combo. In qualche modo il cantato si allaccia parzialmente al disco del 1980, ‘Drama’, ma poi lo supera con afflati più attuali. Come curiosità possiamo accennare al pezzetto chitarristico del minuto 4’13” che sembra fare nelle prime note il verso alla chitarra di un pezzo dei metaller tedeschi Accept del 1982 (‘Princess of the Dawn’); sicuramente un caso. Prima del finale le evoluzioni strumentali diventano sinfoniche orchestrali in senso cinematico, e davvero aumentano il pathos della composizione.

Dentro ‘Mirror…’ vivono anime diverse che producono emozionali vibrazioni, ma è interessante notare come tale sentimento passi senza soluzione di continuità da una sezione all’altra senza perdersi nei cambiamenti.  Tra le canzoni minori sta la terza traccia ‘Luminosity’ il cui intro appare inutile perché espressivamente inconsistente e anche perché sembra come tante cose già fatte da Howe; ma dopo un minuto la canzone cambia e diventa positivamente qualcosa di diverso. Per ciò che concerne la linea melodica, essa si fa quasi filastrocca, eppure funziona; è un buon brano sebbene sia quello meno riuscito del disco, ma sempre meglio delle minori dei due album precedenti già citati; purtroppo l’intro viene ripetuto nel finale con prolisse variazioni soliste, senza aggiungere davvero nulla. Divertente nella semplicità ‘Living Out their Dream’ che fa venire in mente certe espressività anni sessanta per un episodio adolescenziale ma anche pieno di feeling, con delle buone trovate negli inserti strumentali che lo rendono effervescente; il tutto senza difetti e con un bell’assolo elettrico di chitarra. ‘Circles of Time’ è una canzone d’amore, e ha uno stile che ben si allaccia alla storia degli Yes; possiede la consistenza giusta per terminare un disco con soave pregnanza.

Secondo cd

(bonus). Esso contiene una splendida ‘UNKNOWN PLACE’ dove finalmente Downes, un po’ assente finora, si evidenzia con l’hammond vintage, in varie parti ma anche in una sezione solista con basso e chitarra a costruire una jam session classica di pregio, e questa traccia sarebbe stata di diritto, per qualità, meglio nel cd ufficiale al posto di ‘Luminosity’. Minore ma lucente ‘One Second is enough’ che naviga in acque lineari e semplici con la maestria di chi sa gestire con classe la linea melodica, circondandola dei suoni giusti. E però un filler da far cadere le braccia c’è: si tratta di ‘Magic Potion’ che si muove scontatissima e superficiale, fuori dalla mentalità Yes, poco adatta al gruppo ma anche cadendo nel banale senza riuscire in alcun modo a diventare attraente; un riempitivo sbagliato anche considerandolo traccia bonus. Con sette tracce, togliendo ‘Luminosity e questo ultimo momento, l’album ne avrebbe guadagnato; inoltre, fare una divisione in album ufficiale e tracce bonus non sembra essere stata una buona scelta. Se il basso cerca di ricalcare lo stile di Squire, alcune volte quasi riuscendoci, la batteria riesce a mantenere tutto su una buonissima raffinatezza grazie ad un drumming che evita linearità eccessive. White ormai non c’è più e non sarà mai facile sostituirlo, ma questo nuovo sa tenere la tensione. Il cantante dalla sua, in questa terza performance da studio è migliorato parecchio, ponendosi con melodie molto più azzeccate e soprattutto ampliando le proprie modulazioni. Sempre efficace il tastierista che difficilmente si lascia andare, preferendo egli rinforzare la trama, eppure non sarebbe stato un difetto se avesse provato un maggiore virtuosismo, visto che quando ci si mette è lodevole. Stavolta abbiamo un prodotto che risulta ispirato, e non è solo mestiere; dove manca l’estremo virtuosismo tecnico, è lo spirito artistico a vicariare. Anche la produzione è migliorata, essa è in mano a Howe, però si percepisce come sia il prodotto di un gruppo e non un lavoro solista.

La produzione e le idee lo portano talvolta verso Tormato, altre volte verso Drama, in altri casi  verso l’album considerato non-Yes (ma più Yes degli ultimi quattro, visto che i membri erano Anderson-Bruford-Wakeman-Howe) del 1988. Appunto ora si sente l’impegno, e anche si sente che la band ha capito i precedenti limiti, come finalmente rendendosi conto di cosa serva, cognizione che sembrava essersi persa. Un lavoro che non sarà un capolavoro ma è degno della discografia globale degli Yes. Tiriamo un sospiro di sollievo.

Roberto Sky Latini

Ricordo che nel 1980 acquistai Drama e venni folgorato da un mix perfettamente bilanciato di sonorità rock/elettroniche fuse con impasti vocali eccezionali.

Da li volli conoscere meglio gli Yes e cosi a breve acquistai il capolavoro Close to the Edge (1972) a metà tra il prog e la new age, Fragile (1971) altro capolavoro di prog rock barocco e ancora…..mi fermo qui con i ricordi perchè sono troppi e rischio di dimenticare di recensire il nuovo album. Ovviamente parliamo di un supergruppo attivo sin dal 1968 che si trova di dirittto nella hall of fame del prog, una band che ha superato un sacco di tempeste e bufere che giunge fino ai giorni nostri con tante cicatrici ed evidenti segni del tempo.Nel caso degli Yes occorre fare un po’ di storia perchè non si può non citare i virtuosi musicisti che hanno farte della band a cominciare da Rick Wakeman che negli anni settanta e ottanta è stato piu’ volte citato come il miglior tastierista del mondo, il cantante Jon Anderson il cui particolare timbro vocale ha reso universale le canzoni degli Yes, il bassista Chris Squire ed il batterista Alan White scomparsi recentemente ed ho citato solo alcuni degli artisti che si sono alternati nei cinquanta anni musicali della band.

Della lineup che fu rimane ben poco, il superstite principale è sicuramente il maestro della chitarra Steve Howe, poi Geoff Downes mago delle tastiere presente in formazione proprio dal mio preferito Drama del 1980 e poi i seminuovi Jon Davison alla voce, Billy Sherwood al basso e l’ultimo arrivato Jay Schellen alla batteria. Per spiegare e capire il contenuto del ventitreesimo album degli Yes bisogna partire proprio dalla nuova formazione che a parte il batterista è insieme da una decina di anni ed ha prodotto la trilogia composta da Heaven & Earth, The Quest ed il nuovo Mirror to the Sky. 

La musica prodotta risulta omogenea e di buona qualità ma non si percepiscono picchi di eccellenza come in passato. Della serie ottimi musicisti e professionisti ma le canzoni scorrono senza lasciare particolari emozioni…a parte la bellissima minisuite Mirror to the Sky  che con le sue aperture ariose e melodiche sembra congiungere idealmente i vecchi Yes a quelli nuovi, non mi sento di fare la consueta recensione track to track, l’opera ripeto è molto buona e dovessi dare un voto darei un bel sette complessivo ma non c’è il pathos di Fly From Here (2011) ultimo loro disco che mi è piaciuto davvero molto. Sottolineo comunque la grande perizia nel ricostruire il yesmood dei nuovi che si sono amalgamati alla perfezione, nota di plauso sicuramente al cantante Jon Davison che dopo essersi fatto le ossa con i Glass Hammer bandclone degli Yes, ha raccolto egregiamente la difficile eredità vocale lasciata da Jon Anderson e, ad ogni buon conto  Mirror to the Sky  è un disco da ascoltare.

Massimo Cassibba

InsideOut Music
www.yesworld.com

Cut from the Stars
All Connected
Luminosity
Living Out Their Dream
Mirror to the Sky
Circles of Time
Bonus disc
Unknown Place
One Second Is Enough
Magic Potion

Jon Davison – lead vocals (tracks 1-3, 5-6), duet vocals (tracks 4, 7-9), acoustic guitar (tracks 5-6)
Steve Howe – electric, acoustic and pedal steel guitars, autoharp (track 3), vocal duet (tracks 4, 7-9), vocals (track 5)
Geoff Downes – piano (tracks 3, 5, 8-9), organ (tracks 1-2, 4, 6-7), synths (tracks 1, 3, 5, 9), keyboards (tracks 2, 4, 7), minimoog (track 3), celeste (track 3)
Billy Sherwood – bass guitar, vocals (tracks 1-3, 5-7)
Jay Schellen – drums, percussion (all tracks)

Additional musicians:

Fames Studio Orchestra (tracks 1-3, 5-6)
Oleg Kondratenko – conductor (tracks 1-3, 5-6)
Paul K. Joyce – orchestral arrangements