Volbeat

God of Angels Trust

Siamo al nono album per questi danesi molto particolari. Il chitarrista Rob Caggiani è stato sostituito non da un membro stabile ma dal turnista Flemming Lund che non è che si dedichi molto agli assoli. Quasi in ogni traccia si mettono insieme accordi e vocalizzazioni corpulente con linee melodiche che sfociano in ritornelli orecchiabili. L’essenza thrash si mescola ad input punk e questi lati più energici si allacciano ad una certa armonia accessibile. Insomma si è composto come anche in passato, un disco che abbina le due anime, e ciò però con grande intelligente ispirazione, senza banalizzare mai il costrutto né cedendo a soluzioni superficiali. Si associa spesso il loro lato duro ai Metallica, ma in realtà è solo un approccio parziale, perché lo stile è completamente personale e specifico dei Volbeat. Una leggera oscurità permea il lavoro maggiormente che nella carriera precedente ma la solarità continua a non mancare.Il gruppo scrive canzoni con una bella presa metallica per poi sempre immetterci un ritornello che ammorbidisce il mood, e l’apripista ‘DEVIL’S AWAKE’ ne è un esempio eclatante in quanto attacca dura e pesante per poi alleggerirsi al momento del ritornello; funziona benissimo anche se nel suo finale pensato per l’assolo ci si stacca troppo dal contesto canzone senza un vero significato espressivo.

Anche ‘BY A MONSTER’S HAND’ usa la rocciosità di riff thrasheggianti mentre il cantato si fa più simile allo stile dei System of a Down, qui in realtà il ritornello non si butta nel refrain di facile presa, anche se la sua orecchibilità è chiara e netta. Altrettanto schiacciasassi il rifframa di ‘DEMONIC DEPRESSION’ che rimane fermo alla verve cattiva fino al ritornello che come al solito si schiarisce in un’ariosa luce aperta. Il tasso punk del gruppo è ben presente, per esempio con la frenetica ‘BETTER BE FUELED THAN TAMED’ che rock’n’rolleggia frizzante ed empatica pur mettendoci dentro una parte più scura che accoglie le sezioni dell’assolo. Più di senso normale l’heavy ‘AT THE END OF THE SIRENS’ che però ha un bel tiro energico ed un rotondo cantato accattivante, dal feeling immediato. Ottimissima anche l’heavy-punk di ‘ENLIGHTEN TO DISORDER’ che è segnalata come la seconda parte della precedente song ‘By a Monster Hand’, senza invece averne musicalmente nulla in comune; ne risulta una veloce infilzata sonica con rallentamenti evocativi e riff corposi pienamente efficaci. Per questa band il lato commerciale funziona benissimo; tre sono gli episodi che vogliono affrontare di petto questa sfaccettatura, e il pezzo che meglio lo realizza è la splendida ‘LONELY FIELDS’ che nella semplicità gioca solo fra strofe e ritornello, senza altro se non un arrangiamento heavy che possiede anche un seme accennato di psichedelìa dall’effetto atmosferico azzeccato; tutto di spessore e con un ammaliante refrain del quale è facile innamorarsi. Ci provano anche ‘Acid Rain’ e ‘Time will heal’ ma rimangono brani minori, tra l’altro solo rock e non heavy-rock; realizzati con cura e maestria, sempre soddisfacenti ma meno incisivi.

A caratterizzare la riconoscibilità stilistica della band è soprattutto il timbro dell’ugola, ma anche il modo del singer di affrontare il canto in modo diversi, un po’ lineare, un po’ vibrato, un po’ lirico, e costruendo linee cantate non canoniche, riuscendo ad essere di facile presa senza facilonerie nei ritornelli. La vocalizzazione utilizza una musicalità forte pur avendo in alcuni passaggi una impostazione da crooner, ma supera la barriera del cantautorato inserendosi perfettamente nella trama sonora che appare ben congegnata, studiata con attenzione. Questi musicisti hanno prediletto un carattere semplice, che arrivi in modo diretto all’ascoltatore, ma le loro trovate sono eclettiche, particolarmente curiose, anche se non rivoluzionarie. I ritornelli appaiono pregnanti pur possedendo un alto tasso di orecchiabilità, perché la consistenza viene sviluppata cercando di non offrire il fianco all’ovvietà. Una struttura più complessa è nel potenziale del loro songwriting, ma sembra che essi stessi ne elimino la possibilità, anche per esempio riducendo al minimo le sezioni soliste; ciò non determina necessariamente un calo di significato artistico, ma talvolta appare riduttivo.

In un tempo in cui il guadagno con la musica è in crisi, i Volbeat sono invece di successo tra il pubblico. La loro bravura nell’assemblare morbidezza e rocciosità è più elevata che in altri gruppi che tentano la stessa cosa, risulta in loro una forma meglio integrata e anche più spontanea. Forse è questo a premiarli nelle aspettative dei fan, e comunque ciò non li rende commerciali in senso negativo, è una attitudine che rimane all’interno dello spirito rock quale il metal è; c’è in loro una capacità di allargare la comunicazione in senso variegato, con diversificazioni come avevano i grandi gruppi del passato di mettere in campo, in un senso altamente costruttivo. Ma siamo di fronte ad un gruppo moderno, davvero moderno. Usano i riff anni ottanta su linee anni novanta, mentre negli anni novanta spesso la chitarra ritmica creava tappeti distorti invece di riffiche nette e taglienti, e i Volbeat sanno usare bene entrambe le due tecnicità senza contraddizioni o incoerenze; aggiungendoci poi dell’altro senza alcun timore, come da maturità ci si aspetta. Sono questi i gruppi che mantengono aperte le strade dell’arte.

Sky Latinorum

Devils are awake
By a Monster’s Hand
Acid Rain
Demonic Depression
In the Barn of the Goat giving Birth to Satan’s Spawn in a dying World of Doom
Time will heal
Better be fueled than tamed
At the End of the Sirens
Lonely Fields
Enlighten the Disorder (‘By a Monster’s Hand’- part 2)

Michael Poulsen – vocals / guitar
Kaspar Boye Larsen – bass
Jon Larsen – drums
Flemming C. Lund – guitar