The Cure
Songs Of A Lost World
Non c’è verso di potersi inerpicare nei sentieri della storia della musica senza che sentimenti, sensazioni, cuore, polmoni e anima ne restino profondamente coinvolti, soprattutto quando la storia della musica di cui si parla è una parte di te, di quello che sei stato e di quello che in qualche modo continua ad essere, trasportandoti sempre in “mondi perduti”: è di una difficoltà enorme cercare di analizzare il tutto con distacco e restare nel campo dell’oggettività, perché quando l’ascolto va a coinvolgere ogni senso è la soggettività stessa a primeggiare, portando avanti la reale trasparenza di ciò che sei e di ciò che ti porta a stare bene e perché no anche male, dato che non è detto che la musica abbia sempre una valenza positiva: a volte serve per affrontare tutto quello che si agita dentro di te, costringendoti ad una lotta senza quartiere con i vari lati di te stesso, andando a riaprire ferite che pensavi fossero chiuse, aprendo le porte ad un varco temporale in cui le canzoni ti accompagnano nella perdita e nell’assenza di parole e verso la fine, che può rappresentare una sorta di nuovo inizio, una percezione differente dell’entità oggetto che ci compone.Tutte queste riflessioni si affollano nella mia mente quando vengo traghettato da un Caronte drammaturgo, lungo le sponde di un fiume in piena che è Songs Of A Lost World dei The Cure.
Lo sciamano dei sensi Robert Smith, accompagnato dai suoi fedeli compagni, tra cui il quasi onnipresente Simon Gallup, torna a solleticare il nostro animo dopo ben sedici anni, tanti sono gli autunni intercorsi tra il modesto 4:13 Dreams e questo nuovo richiamo all’esorcizzazione del dolore che attanaglia il mondo, che risponde al nome di Songs Of A Lost World: disco abbondantemente annunciato già dal 2019, che però vede la luce solo il primo novembre di questo 2024. Album che potrebbe essere definito itinerante, dato che la maggior parte delle tracce sono state composte e in alcuni casi anche presentate, durante i live che la band ha continuato a fare per tutto il globo: brani di cui si sente, sotto alcuni aspetti, la marcata attitudine live.
Otto sono le tracce che segnano le tappe lungo le sponde di questo fiume nero come la pece, otto inni funebri che sembrano preannunciare la fine del mondo, ma credo che Robert si riferisca alla fine del mondo interiore, otto fermate che fungono da preambolo ad un rallentamento dei battiti all’ interno del nostro petto, mandando il tutto in una però quasi naturale aritmia che ci culla amorevolmente in un bagno amniotico atto alla privazione sensoriale per giungere ad un livello di coscienza più elevato: un viaggio verso la morte e la risurrezione.Sedici anni sono lunghi, soprattutto in un mondo che corre a velocità folli verso un destino ancora più folle, ma sembra che tutto questo non vada minimamente ad intaccare la necessità dei The Cure di dire ciò che ritengono più giusto, nel momento più giusto e soprattutto che tutto questo non vada ad intaccare il Robert Smith pensiero nella sua visione della vita e dello scorrere della stessa:
Songs Of A Lost World si presenta oscuro, sognante, decadente e candido allo stesso tempo, aggrovigliandosi in una spettacolare unione di tastiere sognanti, che si stagliano sopra linee di basso sulfuree e sporche in grado di dare oscurità al tutto: a coronare il viaggio verso la fine gli interventi della chitarra di Robert Smith, carica di riverberi e delay e di quella distorsione pastosa e indefinita, che solo lui ha, pronta a creare ora eteree linee melodiche, ora aggiungendo corposi accordi in grado di dare drammaticità e scintillio al tutto e ciliegina sulla torta, la voce del mastermind, per la quale il tempo sembra essersi fermato e si staglia lamentosa e sognante a coronare il gravoso peso crudo e grottesco che caratterizza tutto l’album.
Per chi vi scrive questo disco è un vero e proprio capolavoro e attraversa senza sbiadire minimamente quasi tutta la discografia di questa meravigliosa band, passando da atmosfere buie e cupe tanto care a Pornography così come a Faith, a momenti più rilassati e dal sapore più pop in cui riecheggiano Disintegration e Wish e nel mezzo, ben miscelate con questi due estremi, troviamo la porzione più rock che hanno caratterizzato Bloodflowers, ma in tutto questo è spettacolare constatare come, nonostante i rimandi, Songs Of A Lost World suoni molto moderno e che dia un ampio risalto alle partiture di Simon Gallup, le quali attraverso la loro semplicità risultano di grande effetto e in grado di donare quel senso di lugubre che attraversa tutto il platter, anche nei momenti più allegri: è il basso a fare la parte del leone nel disco e a creare il perfetto controcanto alle linee eteree definite dalle tastiere, scandendo le note della fine del mondo, sottolineando il dolore della tragedia che porta a fluttuare nel vuoto, ma attraverso la sua durezza, anche la forza di una rinascita.
Lo stregone Smith si erge su ogni cosa, su ogni nota e anche sui silenzi, soprattutto i suoi, come se stesse officiando un rituale, come se stesse cercando il punto di interconnessione di tutte le energie in grado di fornire la forza per il trapasso e allo stesso tempo la forza per ciò che verrà dopo, tanto che molti hanno intravisto in questo album l’epitaffio dei The Cure e anche se sappiamo che il caro Robert si è sempre arrabattato in discorsi velleitari sul futuro della sua creatura, questa volta potrebbe essere l’effettivo canto del cigno, anche se sono sicuro che lo ritroveremo in un’altra forma: la sua estrema sensibilità, il suo amore per l’arte e per la musica, non possono morire così e seppure il finale, qualora lo fosse, sia grandioso, l’uomo dell’esistenzialismo in musica ci ha abituato a grandi sorprese.
Tornando a Songs Of A Lost World, siamo dinnanzi ad un disco profondo, introspettivo e con un carico emotivo non indifferente che si dipanano attraverso strutturazioni dicotomiche in cui Paradiso e Inferno si incontrano e si fondono e sembrano amarsi ed odiarsi contemporaneamente, riuscendo nell’intento di dettare le regole nella scelta di come arrivare alla fine della corsa: armonie rilassate e ricche di soavi melodie si scontrano con un basso distorto e pienamente ritmico che tenta di abbattere le melodie e i tempi dilatati andando invece ad esaltarle in maniera divina, accrescendo una tensione che lambisce ogni anima che entra in contatto con esse, portando ogni singolo atomo a vibrare a frequenze astrali, perché in realtà è questo ciò che fa il nuovo parto della band: ti porta nello spazio siderale e ti permette di vedere lo splendido cosmo, fino a metterti dinnanzi ad una stella che implode su se stessa dando vita ad un buco nero in grado di risucchiare tutto ciò che si trova nelle vicinanze: Songs Of A Lost World ghermisce le anime e i corpi, dilaniandoli e ricomponendoli in continuazione e basterebbe ascoltare Alone per avere quel senso di perdita per poi ritrovarsi nel momento in cui Smith inizia a cantare, oppure sentirsi appesantiti dalla durezza e cupezza di Warsong in cui il basso sembra essere il nero suono che apre le porte dell’inferno per tornare a bussare poi alle porte del Paradiso con I Can Never Say Goodbye.
Fare un disco di tale livello non è affatto scontato dopo sedici anni e soprattutto dopo un’ultima uscita non proprio esilarante, eppure non solo siamo qui a tesserne le lodi, ma ci troviamo quasi davanti ad un miracolo, perché seppur i dischi dei The Cure siano stati sempre impregnati di malinconia e di un certo senso del dramma, Songs Of A Lost World è permeato della magica decadenza che gettava l’occhio sulle miserie umane dei primi album: un lavoro superbo, che qualora dovesse rappresentare la vera fine dei The Cure, sarebbe la summa perfetta.
Daniele “Darklordfilthy” Valeri