Raven Tide
Eleven
Con una storia davvero ricca di traguardi e soddisfazioni, segno di un duro lavoro e consapevolezza, i Raven Tide, band italiana di alternative metal nata nel 2009 con 2 full lenght e 2 Ep alle spalle, ci offre ora undici brani racchiusi dalla bella copertina dell’album Eleven.
Essendo chiaramente vicini al metal sinfonico e alternative trasportano quel sentimento new wave attraverso la scelta di sonorità e atmosfere dell’europa del nord. La voce guida l’ascoltatore verso paesaggi immaginari, attraverso liriche sulla paura di amare Reach for me, la forza acquisita da mille esperienze negative per continuare a combattere in Warriors, o Guardian Angels da intendere in senso letterale. La tecnica non è finalizzata a se stessa, neanche sui soli di chitarra, che anzi sono sempre finalizzati a rendere il lato più sentimentale delle atmosfere create da batteria, voce, e tappeti di sintetizzatori. Cantano della corsa, della fuga per non sentirsi sbagliato, nell’ansia di essere accettato. By your side bellissimo testo, ma la canzone procede senza eccessivi scossoni tra chitarre pesanti che tengono il passo con la batteria, intramezzate a eterei pianoforti. Cito: Ci vuole molta strada per perdersi dentro, attraverso gli oceani di lacrime che hai lasciato dietro di te, l’amore si confonderà sempre con il dolore e mi mantiene in vita, ogni volta che sanguino imparo a morire. Testi profondi ed introspettivi.
Break the silence ha un diverso incipit più energico, accattivante il ritornello con le sue armonizzazioni di voce e una chitarra che sale sugli scudi, dialogando con le voci. Cito: fammi sentire completamente sveglio con tutti i miei sensi aperti. Portami la voce di cui ho bisogno, per rompere il silenzio. Veramente cool l’attacco aggressivo e il procedere ritmico di Born killer. Ma la costante che appesantisce l’ascolto è l’ennesimo ritornello melodico e dal clima malinconico che sembra dover pervadere per forza questo genere, indicatoci nei credits come symphonic metal. Il solo di chitarra non brilla come il riffone iniziale faceva invece preludere. Let me breath si apre come un leone che si avvia spavaldo verso la sua zona di caccia, voce leggermente filtrata nella strofa, ma poi ancora un ritornello che sì, possiede innegabile la caratteristica di intessere una melodia accattivante, ariosa con le tastiere spiegate a mo’ di ali, ma la partecipazione emotiva sembra altra cosa, nonostante tra i brani sembra quella che ne abbia di più. Di contro il solo è il più partecipato dell’intero album. Cito: ho un fuoco che arde nelle mie vene, bramoso come un diavolo nella caccia all’imperfezione della mia anima.
Forse il brano più rock e spontaneo di tutto l’album, non oserei chiamarlo metal, al di là dell’accordatura e del livello di distorsione, sembra essere il penultimo, Lipstick style perché il più dicco di cambi, riff, tempi e finalmente la voce esce dal cliché portato avanti per tutto l’album, con frasi melodiche lunghe, ma assume una metrica più abbreviata in simbiosi con: Non sono più lo stesso di una volta, hai amato un riflesso malvagio di ciò che sono veramente, così sprecato dentro. Bella la ballad finale che si apre con un arpeggio di piano, Underneath dove si canta dell’abbandono e della fine, di Ombre bianche di un tempo lontano e di un luogo scomparso per sempre. Ho cercato di essere sicuro, ma ho imparato a farmi del male. Sembra di sentire qualche inflessione vocale incerta, ma questo non inficia l’apprezzamento del brano, che via via aumenta nel climax in maniera uniforme. In definitiva un disco altalenante a tratti troppo costruito, forse autoreferenziale e assolutamente poco metal, con solo due o tre brani, nella parte finale del disco a risollevare le sorti.
Ivanhoe