Ozzy Osbourne

Patient Number 9

Dodicesimo album del madman Ozzy, e come anche il precedente a questo, ‘Ordinary Man’ del 2020, si tratta della quadratura del cerchio. Si perché la moglie o chi per lui, sa come far realizzare un disco che faccia scintillare il vecchio Ozzy personaggio, come anche avere una collocazione orecchiabile/commerciale che non scada mai però nella superficialità. Sì, perché oggi si tratta di un nuovo buonissimo lavoro. Ricco di idee e di elementi qualitativi.La partenza sinuosa della titletrack ‘PATIET NUMBER 9’, mai dura, è un bell’Hard Rock che non impatta ma ammalia. La cadenzata ‘IMMORTAL’ ci porta a tempi anni ottanta, e non avrebbe stonato in nessuno di quei dischi. ‘NO ESCAPE FROM NOW’ è nettamente il miglior episodio dell’album, con la sua introspettiva atmosfera che ricorda i Black Sabbath di Tony Martin, e che varia con intelligenza le sue parti. A spingere cattivo e duro ci pensa l’incedere di ‘DEGRADATION RULES’, che immette anche una armonica suonata con verve davvero incisiva e particolare, che è molto diversa da quella di ‘The Wizard del 1970, ma ci fa fare un viaggio nel tempo.

Strano che tra i pezzi più belli ci siano quelli con Iommi?  Invece ‘Parasite’ ci regala un afflato che sta a metà strada tra Black Label Society rocciosi e Foo Fighters divertenti. Il doom sabbathiano emerge con la sporca guitar di ‘Evil Shuffle’ che però non si limita a dipanarsi lenta; le accentazioni non mancano, tanto è vero che poi il ritornello è tutta allegria e l’anima scura scompare, anche se il ponte centrale ha una densità affascinatamente psichedelica per quanto breve, e poi l’assolo finale, tagliente, infligge il suo colpo da mestro. Le pseudo ballate o i pezzi da singolo di mercato esistono, ma sono sempre nello stile collaudato di Ozzy, cioè mai  banali o fastidiosi; basta sentire il bel rockeggiare di ‘One of those Days’ o la sofficità Beatlesiana di ‘A thousand Shades’ per rendersi conto che questi brani non sono fatti per la superficialità, nemmeno quando diminuiscono il tasso metal, anche perché le parti soffici vengono alternate nella stessa traccia con pezzetti più tonici. Tra le orecchiabili sicuramente va considerata interessante ‘Dead and Gone’, perché è quella che sembra più commerciale ma alla fine riesce ad evitare la trappola dello stucchevole; non una ballata ma un momento cadenzato che possiede un arrangiamento catchy tipico degli anni ottanta.

Nel cantato c’è un’impronta di indefinita ineluttabilità; mai troppo allegro, mai troppo cupo. E però il cantato non è l’unica qualità emergente. Se c’è una cosa che l’entourage di Ozzy ha sempre fatto bene, è quello di scegliersi i musicisti, virtuosi dello strumento, ma anche produttivi nella sostanza ideativa. Soprattutto si è circondato continuamente di ottimi chitarristi, che usano stili differenti ma sempre adatti alla forma artistica di Osbourne. E tra un guitar-hero e l’altro spicca infatti ogni volta la voce magnetica dell’ex Sabbath, tanto riconoscibile, quanto stupefacente nella sua abilità ad essere incisivo. In effetti la sua immagine pubblica non collima con la sua capacità di essere uno strumento vocale, mai in affanno, almeno da studio (ma anche dl vivo ha lasciato di stucco nelle ultime performance). Eppure gli eventi traumatici non gli mancano, sottolineando la sua vecchiaia apparentemente malmessa (influenze e Parkinson).

Le composizioni poi non perdono mai il filo della tonicità e della bellezza. Brani accessibili eppure fortemente rock e metal. Spaziando in ambiti similari ma differenti, possiamo trovare accenni pop, ma anche hard e stoner corposi che spesso s’infilano anche in episodi che non sono metal al cento per cento. La caratteristica dei lavori di questo pazzoide è di riuscire a vivere un alveo personalissimo che non sia troppo duro ma che abbia caratteristiche rockeggianti nette e indiscutibili. Appunto in questo vengono in soccorso chitarrismi polverosi o distorti che poi con gli assoli alzano il livello in maniera eccelsa. In effetti tutti gli assoli sono parti pregnanti, molto ficcanti, che spesso si contrappongono ad alcune melodie più docili. Con questa sua ultima parte di carriera, per ora formata da due lavori, Ozzy ha forse raggiunto lo scopo di fare quello che più gli si confà, l’amore per melodie aperte ben più solari di prima, del resto i Black Sabbath sono stati una intuizione per niente consapevole (basta leggere le loro affermazioni del tempo), un colpo di genio creatore che rimane mistero agli stessi creatori. Ma Ozzy sognava lande musicali ben più ariose, e oggi le percorre senza però mai abbandonare la propria identità che coi Sabbath è stata fondamentale. Il full-lenght di due anni fa sembrava l’ultimo possibile per il nostro, ed invece ricompare, ma stavolta senza comunicare sensazioni di malinconia anche se ‘God only knows’ recita: “La mia vita è diventata la canzone più triste, meglio bruciare all’inferno che svanire”. Comunque è un bel disco e non fa rimuginare nessuna dietrologia. “Ozzy, sappiamo che sei immortale, ma è bello che ce lo canti per cantarlo con te”.

Roberto Sky Latini

Patient Number 9      (feat. Jeff Beck; Robert Trujillo)
Immortal                      (feat. Chad Smith; Mike McCready)
Parasite                        (feat. Zakk Wylde)
No escape from now (feat. Tony Iommi)
One of those Days     (feat. Eric Clapton)
A thousand Shades    (feat. Jeff beck)
Mr Darkness               (feat.Zakk Wylde)
Nothing feels Right    (feat. Zalkk Wylde)
Evil Shuffle                  (feat. Zakk Wylde)
Degradation Rules     (feat. Tony Iommi)
Dead and Gone
God only knows
Darkside blues            (feat. Duff McKagan)

Ozzy osbourne – vocals
Others guests: Taylor Hawkins; Josh Homme; Dave Navarro; Chris Chaney.