Motley Crue

Shout at the Devil 40esimo anniversario

L’album d’esordio dei Los Angelini rockers, uscito due anni prima del secondo, pur nella sua scarsa qualità compositiva, aveva già linee caratteriali dalla personalità forte che il gruppo, in quell’anno 1982, fece emergere con le accese ‘Live Wire’; ‘Take me to the top’ e ‘Too fast for Love’. Il livello qualitativo salì subito nettamente con il seguente ‘Shout at the Devil’, che evitò cadute di tono e perse felicemente alcune manifestazioni acerbe d’inizio carriera.

Un senso quindi più heavy e meno hard, in cui si trovano riff più impattanti e anima meno incerta. Ne festeggiamo 40 anni visto che l’opera fu pubblicata il 26 settembre 1983. Con l’apripista ‘SHOUT AT THE DEVIL’ è subito colpo ad effetto; annunciato dall’intro parlato ‘In the Beginning’ entra in scena un brano che non usa l’azione dirompente per rompere il ghiaccio ma un ritmo cadenzato e compatto che ammette l’ascoltatore però ad una partecipazione corale per immediatamente fare entrare in gioco il pubblico in dimensione live, potendo cantare a pugni alzati il duro refrain.

I riff sono uno sporco hard rock che ha tutto della tradizione, ma anche un carattere assolutamente irriducibile. L’episodio che fa presa commerciale da singolo è invece ‘LOOKS THAT KILL’ che indossa in toto le vesti dello Street Metal di cui i Motley diventano i paladini per eccellenza negli anni ottanta; il suo essere commerciale lo è però solo per il mondo metal, perché di pop non ha nulla, mantenendo tutta l’anima rovente del rock. Per i metallari della NWOBHM è invece la breve ‘RED HOT’ l’episodio più significativo, il quale è il pezzo più veloce in stile power a doppia cassa che il disco possiede, e si sente come il movimento inglese ottantiano ne sia l’ispiratore; si tratta di una scheggia scattante adatta a pogare ed una delle migliori song mai scritte dal gruppo. L’ammorbidimento di ‘TOO YOUNG TO FALL IN LOVE’ non diventa affatto una caduta di qualità, ma un ottimo momento intimo che si regge su un substrato di raffinata distorsione e su un ritornello quasi malinconico che rende chiaro come il gruppo in poche trovate sa trovare la quadra ottimale per ogni traccia che scrive.

Come in tanti dischi possiamo separare i brani migliori dai minori, ma qui non troviamo nessun brano scarso, cioè filler, come invece era stato per il primo lavoro. La migliore delle minori è ‘Danger’ che fra tutti i brani evita la baldanza e cerca invece una eleganza più introspettiva, sempre però votata all’hard classico; qui sentiamo come chiaramente essi non siano solo personaggi gigioneschi, ma anche musicisti in grado di presentare diverse personalità. ‘Bastard’ è un rock’n’roll che aumenta la velocità media del disco, potente e incombente; presenta un basso corposo che addensa il sound e la chitarra taglia l’aria con i suoi riff. Il riffing alla Twisted Sister (debuttanti l’anno prima) di ‘Knock ‘em Dead, Kid’ non rovina una canzone cadenzata la cui linea cantata è sufficientemente personale da funzionare a dovere. Un po’ debole ma comunque da voto sei, ‘Ten Seconds to Love’, visto che non annoia. La strumentale ‘God bless the Children of the Beast’ è un buonissimo spunto ma non viene sviluppata e perde mordente per questo, nel suo minuto e tredici secondi non è sufficiente a tirare fuori qualcosa di più.La presenza della perfetta cover di ‘Helter Skelter’ dei Beatles diventa perla preziosa dell’opera in quanto è una delle più belle versioni della song, riuscendo la band ha valorizzare lo spirito heavy che i Beatles anticiparono con abile intuizione sperimentale.

L’anno in cui fu pubblicato questo lavoro è lo stesso del periodo finale della NewWaveOfBritishHeavyMetal, che ancora però impazzava mentre anche era già nato il thrash di ‘Kill’em All’ dei Metallica; la storia musicale stava cambiando ma era ancora immersa nel movimento che era iniziato a fine anni settanta. Ed in questo lavoro la cosa si sente, del resto se stava per morire il movimento britannico, stava per impazzare lo star-system dello Street Metal nella famosa Sunset Boulevard a Los Angeles, di cui grazie a ‘Shout at The Devil’ i Motley sarebbero stati i reginetti per gli anni più infuocati della loro carriera, tra donne, droga e appunto rock’n’roll; nel classico stile cantato da Ian Dury (1977). I Motley sono moderni in senso già sorpassato se vogliamo, sarà infatti il thrash la vera innovazione di quegli anni, ma ancora lo Street  e il glam avevano cose da dire. Diciamolo senza remore: i Motley Crue non sono stati musicalmente degli innovatori, ma hanno avuto il pregio di mescolare con efficacia l’Heavy inglese con lo Street americano alla Aerosmith, rendendo sfolgorante e scintillante un nuovo ambiente metallico, quello dei colori e delle paillettes, in una maniera niente affatto debole e completamente dentro la mentalità metallara.

L’etichetta festeggia il quarantennale rimasterizzando il lavoro, contenendo inoltre rarità ed altro materiale vario con un box-set (tipo demo e litografie). Disco storico che racconta una fase della storia del metal, per cui essenziale per chi vuole capire gli anni ottanta e l’energia irriverente che la percorse in modo vibrante.

Roberto Sky Latini

Motley Crue
Shout at the Devil
Elektra Records (1983)
BMG Rights Management (2023)
www.motleycrue.com

In the Beginning
Shout at the Devil
Looks that Kill
Bastard
God Bless the Children of the Beast
Helter Skelter
Red Hot
Too Young to Fall In Love
Knock ‘Em Dead, Kid
Ten Seconds To Love
Danger
‘Shout at the Demos’ & Rarities tracklist:
Shout at the Devil (Demo)
Looks that Kill (Demo)
Knock ‘em Dead, Kid (Demo)
Too Young to Fall in Love (Demo)
Hotter than Hell (Demo for ‘Louder than Hell’)
I will Survive (Demo)
Black Widow (Demo)

Vince Neil – vocals
Mick Mars – guitar
Nikki  Sixx  – bass
Tommy Lee – drums

Other musicians:

Jai Winding; Paul Fox – keyboards