Metallica

72 Seasons

La vita di ognuno di noi è composta da svariati momenti, alcuni buoni altri decisamente meno, ma ognuno di questi momenti contribuisce a renderci ciò che siamo e, nel corso degli anni, cambieremo ancora dato che altre esperienze si aggiungeranno al nostro bagaglio.

La vita è fatta di momenti solari e momenti di buio completo e forse sono questi ultimi quelli da cui siamo in grado di imparare di più: viviamo di disillusioni, di sogni interrotti, di speranze bruciate e innocenze violate, momenti con cui è necessario fare i conti e con cui ci si deve confrontare sempre se si vuole rimanere presenti a se stessi, evitando di cadere in vortici negativi che possono portare a conseguenze e gesti estremi. A quel che sembra è questo ciò di cui parla 72 Seasons, ultima fatica in studio dei Metallica: è un disco che parla di loro, parla di ciò che erano, dei loro sogni divenuti realtà, dei sogni che si sono infranti contro delle pareti impossibili da abbattere e parla di ciò che sono diventati e di come abbiano saputo sconfiggere, per lo meno fino ad ora, i loro demoni, in particolar modo James Hetfield.72 Seasons è il dodicesimo album in studio dei Four Horseman e arriva quasi come un fulmine a ciel sereno, nel senso che fino all’uscita del primo singolo Lux Aeterna, nessuno si aspettava una nuova uscita in casa Metallica: il gruppo ha lavorato in totale riservatezza e nulla è trapelato fino a quel fatidico dì in cui Lux Aeterna ha fatto la sua comparsa su tutte le piattaforme digitali: è stato l’inizio del delirio.Personalmente a me di tutto il delirio che si scatena ogni volta che esce un nuovo disco dei Metallica, non me ne frega assolutamente nulla, soprattutto perché è pieno di inutili nostalgici che pensano ancora ai Metallica come alla band che nel 1988 diede alla luce quello che è considerato dalla maggioranza il loro ultimo capolavoro: …And Justice For All. I quattro di Frisco non solo non sono più quei ragazzi che hanno scritto album considerati tra i migliori capolavori del thrash metal, ma non sono più nemmeno giovanissimi, hanno una vita sicuramente più agiata, hanno delle famiglie ma la cosa più importante è che non hanno più quella violenza istintiva e quell’arrabbiatura tipica di quando si è più giovani; la loro vita è cambiata e anche parecchio ed è cambiato anche il modo di affrontarla. In tutto questo, gli unici a non aver capito nulla di cosa è successo, sono i fan del metal, ancora lì a farsi innumerevoli, oltre che inutili, pippe mentali, alle quali sarebbe necessario rispondere in un solo modo: i don’t care, fuck shut-up. Ovviamente tutto questo è assolutamente impossibile dato che i Metallica sono i Metallica e ci sarà sempre da discutere su di loro, su qualsiasi nuova uscita e su qualsiasi fatto o parola che li riguardi; resta comunque il fatto che i Four Horsemen non sono più i Four Horsemen e a 60 anni suonati (ma questo accadeva già da molto tempo) hanno deciso che tocca a loro essere realmente padroni di ciò che creano e di ciò che dicono.

Un lunghissimo cappello per arrivare finalmente alla recensione vera e propria di questo undicesimo album in studio: 72 Seasons, il numero esatto di stagioni che li separano dalla loro adolescenza e dai loro esordi, quando dormivano sotto i palchi e macinavano miglia su miglia per pochi spicci, pur di suonare ovunque e far nascere la leggenda. Niente di più vero, perché questo disco prende tutto quello che i Metallica hanno detto nel corso degli anni e lo rielabora secondo ciò che sono adesso, seguendo i demoni che sono dentro ognuno di loro e lasciando che fluiscano attraverso la musica, musica che finalmente risulta coerente con ciò che ci si aspetta dai Metallica di oggi; infatti dopo un paio di tentativi andati abbastanza a vuoto e album, a parere di chi scrive, mediocri come St. Anger e Death Magnetic, arriva un raggio di sole a rischiarare un cielo abbastanza plumbeo che ha portato i quattro (ad un certo punto 3) sull’orlo dello scioglimento: finalmente è arrivato Hardwired…To Self-Destruct a rimettere un po’ sui binari questa locomotiva impazzita e sul punto di deragliare; infatti Hardwired risulta un disco decisamente più compatto dal punto di vista della scrittura e con brani che sanno esattamente dove sono come vogliono andare a parare. 72 Seasons riparte da questa presa di coscienza e riesce addirittura a migliorare la situazione, elaborando un tappeto sonoro molto molto più coerente e decisamente più compatto e per farlo si spoglia di molti fronzoli i quali avevano caratterizzato la scrittura dei tre dischi precedenti a questo: in buona sostanza si riparte dalle concretezza di un disco come il Black Album, disco che al suo interno porta ancora una forte dose di metal, così come si parte, d’altro canto, da una base di hard rock moderno come lo è Load; il bello però è che 72 Seasons non prende spunto solo da quanto fatto da un certo punto in poi, nello scorrere dei brani ci si rende conto che al loro interno convivono svariati richiami anche ai grandi dischi del loro passato meno recente e così come rimandi alle loro fonti di ispirazione come i Diamond Head e tutto ciò che ha ispirato Garage Days.

Il disco scorre decisamente meglio anche di Hardwired e la pulizia dagli orpelli operata, sembra raggiungere il suo scopo nell’economia generale del disco, che risulta sicuramente più diretto e più coeso, agevolando l’ascolto di un disco che, altrimenti, risulterebbe una mattonata allucinante. Io comprendo la necessità di avere la musica come terapia, di voler finalmente fare chiarezza dentro se stessi e affrontare a viso aperto tutto il marciume che è stato accumulato dentro, però è necessario porre anche dei limiti, dato che, come in tutte le cose, il troppo storpia e, sinceramente, dopo tre album precedenti 72 Seasons con una durata di oltre 70 minuti, non si sentiva la necessità di averne un quarto il cui minutaggio tocca quasi gli 80 minuti: è davvero troppo, soprattutto se presenti un disco che è basato principalmente su mid tempos, certo c’è del buon groove, ci sono partiture snelle ma c’è una strutturazione dei brani che è assurda: strofe ripetute svariate volte con relativi ritornelli annessi, bridge usati sia come tali sia come passaggi o momenti puramente strumentali, magari aggiungendo piccole variazioni, per lasciar ripartire nuovamente o una strofa o un ritornello, cui fa seguito nuovamente l’una o l’altro per inserire i solo: una eccessiva ripetitività che affatica e non poco l’ascolto.Una menzione speciale merita il comparto soli: basta! Kirk Hammett ha smesso di impegnarsi con i soli dopo aver finito le registrazioni del Black Album; assolo spesso e volentieri scontati, banali e soprattutto quasi tutti uguali, con un abuso delle pentatoniche e del wah wah che sanno di vetusto: siamo nel 2023, gli anni 80 sono finiti da un bel pezzo e sarebbe ora di comprendere che se in un brano non c’è un solo non succede assolutamente nulla, anzi, tante volte è meglio non metterlo piuttosto che scadere nella ripetitività: un assolo deve essere un orpello che sappia donare qualcosa al brano e non una necessità a prescindere. Togliendo alcuni di questi momenti, si sarebbero potute accorciare diverse composizioni e rimanere in tempistiche normali.A tutto questo si aggiunge una caratteristica fortemente negativa che caratterizza i Metallica post Cliff Burton: il basso! Prima con la bruttissima faccenda legata alla totale mancanza delle linee di basso in …And Justice For All, rimediata nel successivo Black Album, disco in cui, semmai ce ne fosse bisogno, Jason Newsted ha dato prova di essere un grande bassista, suonando delle linee spettacolari e perfettamente integrate con il sound del disco, anche i successivi due dischi comunque non fanno rimpiangere questo splendido strumento.

Le dolenti note arrivano da St. Anger in poi, con l’ingresso di Trujillo in formazione, anche egli è un bassista non di primo pelo e con anni di esperienza sulle spalle ma ai Metallica questo pare non interessare affatto perché limitano il buon Robert al mero compitino e, nonostante in 72 Seasons il basso sia messo maggiormente in evidenza, le linee sono scialbe, quando non si limitano a ricalcare la trama chitarristica, risultano inefficaci e non in grado di aggiungere nulla alle composizioni; a questo punto mi chiedo come mai, in studio, non sia James a farsi carico delle registrazioni delle linee di basso e prendano un bassista solo per le live session, sarebbe sicuramente più opportuno piuttosto che sprecare talento.Nonostante diverse cose negative 72 Seasons è un gran bel disco capace, nonostante la sfiancante lunghezza, di crescere con il crescere degli ascolti: orecchiabile al punto giusto, con riff capaci di stamparsi in testa sin dal primo ascolto, con un Lars che sembra ringiovanito e in grado di caricarsi sulle spalle il giusto groove, quello che serve alle canzoni per non annoiare e fare muovere la testa. Detto sinceramente nessuno si sarebbe aspettato un disco così ben costruito e con una produzione, finalmente, degna del nome stampato in copertina, copertina che merita una bella menzione perché perfettamente centrata sul concept che attraversa tutto il disco; ma qui a farla da padrone sono i riff che James è riuscito a tirare fuori dal cilindro: finalmente c’è della musica che scorre nelle tracce, finalmente dei riff che non siano di una banalità disarmante e soprattutto slegati tra loro, qui James riesce ad imporre un gran tiro con il giusto appeal in grado di palleggiare tra del buon heavy, dello spettacolare hard rock moderno e sani e mai banali rimandi al passato, con questo non vi voglio dire che i quattro di Frisco siano tornati a fare thrash: no, non troverete nemmeno l’ombra del thrash metal dentro 72 Seasons perché non è più quella la via di scrittura che i Metallica intendono perseguire, potrete trovare però dell’ottima musica in grado di rappresentare al cento per cento ciò che i Metallica sono oggi, la loro volontà di sentirsi liberi di fare ciò che vogliono e divertirsi alla grande nel farlo.

Se non avete paura del minutaggio elevato fate vostro questo disco perché ne vale veramente la pena.

Daniele “Darklordfilthy” Valeri 

72 Seasons
Shadow follow
Screaming Suicide
Sleepwalk My Life Away
You Must Burn!
Lux æterna
Crown of Barbed Wire
Chasing Light
If Darkness Had a Son
Too Far Gone?
Room of Mirrors
Inamorata

James hetfield – vocals / guitar
Kirk Hammett – guitar
Robert Trujillo – bass
Lars Ulrich – drums

Undicesimo album per i Metallica (quello ‘vuoto’( LULU’N.D.R.)) con Lou Reed non ha senso conteggiarlo) e sono passati ben sette anni dal precedente ‘Hardwired’. Possiamo subito dire due cose:  non è un lavoro commerciale e non presenta filler. Per ciò che concerne la qualità, siamo di fronte ad un album di tutto rispetto che non annoia e contiene belle canzoni. Perchè è questo che conta, e quando giustamente si dice che la band ormai non deve dimostrare niente a nessuno, significa semplicemente che non deve più innovare, ma fare belle canzoni però sì, altrimenti non avrebbe senso, e questo a loro riesce ancora bene.

Naturalmente abbiamo brani maggiori e brani minori. Fra i migliori abbiamo la title-track ’72 SEASONS’ che si alterna tra tempi cadenzati e veloci azzeccando sia la linea melodica che l’impatto. Acchiappante la fluida ma arrembante ‘SCREAMING SUICIDE’ che nell’assolo cita ‘Highway Star’ dei Deep Purple anche se qui non siamo di fronte ad un grande virtuosismo chitarristico. ‘LUX AETERNA’ è un’ottima scheggia rockeggiante, elettrica e tosta, molto divertente e che testimonia la luce scatenata che i Metallica sanno irradiare. ‘CHASING LIGHT’ è un bel pezzo che si lega molto al passato NWOBHM, ed elabora bene il passaggio dalle strofe al ritornello inserendo personalità dentro un alveo positivamente tradizionale; è uno di quegli episodi il cui andamento del rifframa dà gusto di per se stesso. ‘TOO FAR GONE?’ porta direttamente allo stile del seminale ‘Kill’em all’  e proprio per questo risulta uno dei pezzi più intriganti, con un ritornello e degli ‘Oooh’ più morbidi di quanto sarebbero stati in quell’album, ma sono una apertura atmosferica che non stona affatto. La corposa ‘INAMORATA’, che sembra ispirarsi più ai Black Sabbath e allo Stoner che alle caratteristiche proprie dei Metallica, è uno degli apici del disco, in quanto song, ma è un piccolo gioiellino doom che vive di pregnanza densa; purtroppo, pur essendo la traccia più lunga del disco (11 minuti), avrebbe avuto bisogno di altri due minuti perché la parte centrale oscura guidata dal basso, perde l’occasione di venire sviluppata in maniera esaustiva, possedendo un potenziale interessante in cui aprirsi a qualche gioco sonoro, magari un assolo che avrebbe valorizzato al meglio quella sezione. In ogni caso si pone come un  pezzo artistico di spessore, degno, anche dal punto di vista emotivo, di terminare un full-lenght‘Rooms of Mirror’ va tra i brani minori pur avendo passaggi interessanti, perché di base è la song più derivativa di tutte, sebbene funzioni alla grande. L’unica canzone che rasenta il rischio di farsi filler è individuabile in ‘You must Burn’, sicuramente quella meno brillante per l’assenza di una accentazione che possa farla ascendere.

I Metallica riescono a gestire il riff-rama sempre in modo efficace, cambiando ritmi che si mescolano rendendo continuamente interessanti i passaggi, in alcuni casi particolarità che danno colpi di colore intelligente al quadro. La lunghezza delle tracce permette di sfruttare al massimo le idee riffiche potendole dinamizzare in modi diversi, con ponti e parti che sottolineano vari caratteri dell’idea proposta, come quasi sempre fatto nella loro carriera. Il drumming è ottimo perché regge perfettamente le strutture e non necessita di variazioni specifiche dato che funziona come il ritmo lineare degli AC/DC, nel modo in cui le canzoni lo pretendono. Invece per la lead-guitar, per quanto giusta in tante parti, si sente il bisogno di una maggiore dinamicità e creatività, troppo semplificate certe espressività che non valorizzano adeguatamente le singole tracce. I Metallica accelerano in pochi casi prediligendo ritmi cadenzati o lenti, ma quando corrono il risultato è sempre sopra la media. Se il genere di base rimane thrash, come anche in altri album si immettono pure stilistiche diverse. Questa volta si usa meno l’Heavy, ponendosi talvolta in ambiti stoner o doom. E’ un disco insomma che pur riallacciandosi agli anni ottanta conserva pienamente i caratteri più tonici degli anni novanta. Si sente chiaramente quanto questi musicisti si autocitino, ma tali avvicinamenti a se stessi non sono altro che un marchio di fabbrica e non un difetto. Questo non è il loro apice compositivo, ma anche se come fruitore desiderare un capolavoro all’ennesima potenza è lecito, il non trovarlo nell’ultimo dei Metallica è come non trovarlo nell’ultimo dei Led Zeppelin (‘In through the Outdoor’) o nell’ultimo dei Black Sabbath con Ozzy (‘Never Say Die’). Ma questo non significa per forza trovare un disco scarso. Considerando che abbiamo trovato un bel lavoro nell’ultimo degli Slayer (‘Repentless’) e nell’ultimo dei Megadeth (‘The Sick, the Dying …and the Dead’), anche qui coi Metallica troviamo allo stesso livello un bel risultato. Avere un disco non da dieci non è uno sbaglio, è la normalità di ogni artista che raramente tocca gli apici in maniera consecutiva. Per cui i Metallica non sono una delusione, ma una ficcante zampata degna della loro fama.

Roberto Sky Latini