Marilyn Manson
One Assassination Under God
Arriva un momento, per ogni artista, in qualsiasi campo esso decida di cimentarsi, di fare i conti con se stesso, con la propria anima, con il proprio vissuto e anche con l’immagine e l’immaginario che il mondo ha di lui e spesso e volentieri ci si ritrova ad avere a che fare quasi con uno sdoppiamento della persona: una immagine pubblica legata a miti, leggende, verità impastate con distorsioni della realtà, verità spiattellate nude e crude come se nulla fosse, bugie alimentate ad arte, distorsioni complete e o parziali dei messaggi che si vuole mandare e poi c’è l’altra parte, quella più intima, quella vera, il volto semplice che solo in pochi riescono a conoscere e che in pochi hanno voglia di vedere, perché spesso è più semplice lasciare che a parlare sia la superficie, dato che interrogarsi per andare oltre è complicato e comprenderebbe l’obbligo di fare i conti anche con noi stessi. Tante volte però ci pensano gli artisti stessi a svelarci una parte di loro in modo più profondo, ci raccontano di come vedono l’altro sé: quello pubblico, quello quotidianamente stuprato ed esposto alla mercé di chiunque voglia aprire bocca e parlare: il mostro è lì fuori ed è visibile a tutti.
Questa volta a fare i conti con se stesso è Il Reverendo più dissacrante del mondo: Marylin Manson torna dopo ben cinque anni dal suo ultimo, appena sopra la sufficienza, lavoro in studio We Are Chaos, con una nuova release quasi a sorpresa: One Assasination Under God – Chapter 1. Finalmente si torna a parlare di una certa qualità di scrittura e di una ritrovata verve che aveva contraddistinto l’operato di Brian e della sua combriccola fino ad Holy Wood (In The Shadow Of The Valley Of Death): il suono è tornato a farsi cupo e grottesco, così come le metafore utilizzate nella parte prettamente testuale. One Assassination Under God sembrerebbe essere una specie di best of della suddetta band, tanto che vi si possono trovare gli echi dei primi album, con particolare riferimento ad Holy Wood, così come le espressività più ragionate e melodiche dell’ ultima parte della carriera dei Nostri; nessuno stravolgimento di sound, nessuna formula fuori dagli schemi, qui si gioca con il gothic rock, con la dark-wave, con il synth-pop e con l’elettronica e soprattutto con un certo manierismo di provenienza spiccatamente Bowie-ana, a mancare in maniera pesante è la porzione più prettamente industrial, che si affaccia in pochi momenti tanto che la band preferisce ripiegare più su un contesto elettronico/elettrico rispetto ad una visione più industriale.
Sarà forse causa della narrazione, sarà forse causa dell’ introspezione che hanno portato ad una scelta più vicina al rock rispetto ad uno sguardo rivolto ad un sound che potesse essere più vicino ai transistor che alle valvole: ma questo è solo il primo capitolo e non è detto che nella seconda parte il viaggio non viri verso territori più sintetici.
Come dicevo in apertura, ogni artista, cosi come ogni essere umano, prima o poi si trova a fare i conti con il suo vero io e molto probabilmente, anche a causa delle vicende personali e giudiziarie, anche il dissacrante Marylin Manson ha dovuto fare i conti con la persona Brian Hugh Warner e non credo sia un caso che la copertura sia un autoritratto, dipinto dallo stesso Brian, in cui si raffigura come fosse “La Creatura” del Dott. Frankenstein nel racconto di Mary Shelley; dove La Creatura è Marylin Manson e a narrare c’è Brian Warner e ripercorre tutta la sua vita attraverso la figura di Marylin Manson, l’epigone attraverso cui è riuscito ad esprimere il suo malessere, la sua sete di libertà e la fierezza del suo essere:
La Creatura è semplicemente una controfigura perché questa volta il disco parla della persona e la verità arriva attraverso una serie di racconti grotteschi e oscuri, che parlano della necessità di Brian di essere più padrone delle proprie creature, che fino ad ora sembrerebbero avere il sopravvento: sembra quasi che voglia imbastire un processo contro se stesso e contro l’espediente in cui trasmuta e trasfigura se stesso. Non vuole fare la vittima ma in realtà è così che si pone, quasi soccombesse sotto il peso della rappresentazione trasfugando nuovamente la sua persona verso Marylin Manson, il quale da un certo momento in poi sembrerebbe essere il padrone incontrastato della manifestazione musicale: da No Funeral Without Applause in poi non c’è quasi più Brian Warner ma è Il Reverendo che sale sugli scudi riportando tutto nella tipica melma che lo ha caratterizzato, soprattutto in Holy Wood, così come quel piglio che parte dalla cover di Sweet Dreams che rappresenta una sorta di linea rossa che collega un po’ tutto questo One Assassination Under God.
Marylin è tornato ad urlare le contraddizioni del mondo, è tornato a scardinare il bigottismo ed è tornato a denunciare i soprusi di una società verso chi è continuamente vessato, ma tutto filtrato attraverso la persona Brian, perché è lì che lui è sempre presente.
Il disco non è un capolavoro, non sarà sicuramente il disco testamentario dei Marylin Manson ma è un disco scritto e fatto veramente bene, che ha qualità da vendere: come ho detto più su, sinceramente, è dai tempi di Holy Wood che non riuscivo ad ascoltare un disco di Manson che portasse questo livello qualitativo. C’è davvero tutto in One Assassination Under God e anche se l’industrial latita un po’, poco importa perché non si sente la mancanza di quella oscurità e quella lordura che hanno caratterizzato la prima parte della carriera del Nostro e questo nonostante una produzione piuttosto pulita.
Mi sento vivamente di consigliare l’ascolto di questo platter anche ai più scettici perché è un disco composto molto bene con una capacità di riservare sorprese ad ogni brano ed ha una capacità di scorrere davvero spettacolare.
Bentornato Reverendo e speriamo di riuscire ad ascoltare una seconda parte ancora più oscura, ancora più grottesca e ancora più pesante: La Creatura vive ed è sempre ribelle.
Daniele “Darklordfilthy” Valeri