Iron maiden
Senjutsu
Esce il nuovo, e diciassettesimo, album della britannica Vergine di Ferro. Un attesa lunga ben sei anni da ‘The Book of Souls’ e si tratta di un buon lavoro che sta nella media qualitativa della produzione globale della discografia.
Bruce ha la sua bella verve interpretativa e una voce che non sembra aver mai avuto problemi.Le chitarre sfornano le loro duellanti e famose scorribande, non sempre lucidamente. La batteria forse è un po’ sottotono. Il basso martella come sempre anche se stavolta cerca di non esagerare. I passaggi a volte denotano una certa freschezza, altre volte invece si fanno un po’ stantii, ma nell’insieme non si perde il senso delle cose, cose che hanno un respiro heavy indiscutibile.
La title-track leggermente scura e melodica ‘SENJUTSU’ apre con classe l’album, e il suo ritmo ossessivo è ben accompagnato da chitarre dense e con un senso introspettivo che non copia le cavalcate spesso abusate dalla band; un ottimo pezzo anche considerando l’intera carriera, in grado di competere col passato. Le cavalcate ci sono, ma tra esse è ‘STRATEGO’ a farsi valere, classica classica, ma che non dà segni di Dejavù perché non esagera con le parti ripetitive e perché la linea melodica pur nello stile ben conosciuto sa avere una sua personalità sebbene non sorprendendo, e ha un bel tiro tonico. Anche il singolo uscito prima dell’abum, cioè ‘THE WRITING ON THE WALL’, risponde alle aspettative in modo positivo dato che nel suo essere folk si percepisce una certa durezza e anche una capacità di mantenere la tensione.
Uno dei pezzi più efficaci del lotto è la ballad ‘DARKEST HOUR’ grazie sia all’arrangiamento che al pathos vocale che Dickinson sa immettere con abile senso emozionale. Il pezzo lungo (più di dodici minuti e mezzo) che non perde mordente è ‘THE PARCHMENT’, in grado di avanzare greve con la sua ritmica orientale incombente, e anche se la band ci ha già deliziato con questo tipo di musicalità, qui si è riusciti a trovare il modo di rendere ancora accattivante questo tipo di concetto, e oltre a funzionare bene la linea cantata dall’inizio alla fine, possiede passaggi intriganti che poi danno il via ad un lungo incedere dell’assolo, creatore di un pathos che procede per tutta la sua esecuzione. ‘HELL ON EARTH’ fa terminare il disco contribuendo al lato migliore dell’album, al di là di un inizio delicato però tedioso, e fa immediatamente storcere di più la bocca l’inizio movimentato perché da qualche altra parte sembra già essere stato suonato.
Fortunatamente il cantato la salva alla grande perché Bruce tenta di modificare il suo stile in qualche cosa di più melodico aprendosi in senso arioso senza perdere feeling, oltre al fatto che al centro c’è un buonissimo ponte atmosferico che poi si alza cambiando tonicamente il carattere del brano, ottenendo quel sapore di sorpresa che racconta come nella musica dei Maiden ci sia bisogno di queste sterzate; brano che avrei terminato senza tornare alla parte soft già rompipalle prima.Ho citato per primi i pezzi migliori, poi un altro pezzo fa bella figura di sé anche se in maniera meno ficcante. Si tratta di ‘THE TIME MACHINE’ che dopo una classica intro soffice piuttosto debole stampa un bell’incedere, ma al di là del solito giro circolare, il cantato e la parte solista, sorretti da un bel muro di chitarra ritmica, possiedono una essenza intrigante che non ha nulla di innovativo ma che è semplicemente una bella canzone Indico infine l’esistenza purtroppo delle song che sviliscono il lavoro, anche se formalmente sembrano mantenere la sufficienza.
Il quasi filler ‘Lost in a lost World’, per esempio, fa cadere le braccia per la sua canonica esplicitazione; la parte soft iniziale, a differenza di certi inizi morbidi un po’ loffi che a volte i Maiden creano, stavolta è piuttosto interessante, ma poi quando si cambia verso la distorsione si va a sprecare una opportunità con soluzioni vocali e riffiche che non decollano, sapendo di semplice dovere compositivo che sembra di aver sentito cento volte. Un bel riff stile anni ottanta esprime ‘Days of the Future Past’, un episodio un po’ più efficace di ‘Lost’, ma mentre si ascolta il ritornello ci si domanda perché bisogna sempre essere così autoreferenziali perdendo la scintilla? E perché in questi frangenti si deve voler essere così tanto prevedibili? Non si salva in nessuna sua parte ‘Dark of the Celts’ perché nonostante la lunghezza di oltre dieci minuti, contiene molta povertà di scrittura; classiche lungaggini noiose di cui conosciamo il risultato, e nessuna variabilità esecutiva del cantato, per altro così simile a tanto altro da rendersi ridicolo, e in aggiunta semplicemente un dilungarsi chitarristico ritmico e, come in ‘The Parchment’ dove anche lì l’assolo era preceduto da segmenti ritmici, segue in successione la sezione solista, ma stavolta è un mero esercizio di stile senza un senso compositivo riconoscibile se non una possibilità di avere un valore, anche per carità divertente, in senso Deep-purpleiano nelle performance dal vivo come facevano Blackmore e Lord in ‘Made in Japan’ improvvisando.
La copertina sanguinolenta che vede un Eddie Samurai feroce, è un lavoro che impressiona e che vive in una dimensione meno fumettistica del solito; anche in un certo senso disturbante, distaccandosi da certe sue immagini kitsch in altre cover. Qua e là troviamo delle sezioni che sono meno Iron Maiden del solito, ma sono sempre immerse nel trademark del gruppo, a volte valorizzando il pezzo, altre volte affogando nel songwriting, perdendo spunti che avrebbero potuto accendere un respiro innovativo che gli Iron da tempo non cercano più. Spesso durante anche l’ascolto degli episodi migliori, si sente che in alcuni punti ci poteva stare qualcos’altro, e il fremito di attesa viene deluso dalle entrate che sono quasi pedisseque citazioni di propri brani del passato. E’ questo il difetto della band, voler rimanere eccessivamente nella Comfort Zone. In realtà dove accenni di cambiamento ci sono, si evince un potenziale che funzionerebbe senza rischi, basterebbe veramente poco per poter far alzare le quotazioni di un simile album.
Una accelerata simil-power, un cantato più secco e sbattuto, una chitarra che inserisse una leggera impuntatura o un nitrito (tanto per dire), melodie meno prolungate, scatti improvvisi o note allungate in maniera meno strutturata; magari un abbandono di certe linearità o anche un non eseguire con la chitarra la stessa melodia del cantato. Queste aggettivazioni non stravolgerebbero lo stile, ma arricchirebbero ogni composizione che invece, almeno in tre quarti dei casi, sembra lasciar fuggire una possibilità di incremento di sostanza sia energetica che estetica. In effetti ascoltando in maniera rilassata, spesso si ha l’idea che nelle song possa starci qualcos’altro, naturalmente escludendo quei pezzi che proprio non funzionano e che sono insalvabili. Harris e compagni sono un po’ prigionieri della loro carriera, e dall’interno sembra mancar loro questa visione distaccata di se stessi. Resta il fatto che i Maiden non si sono venduti al mainstream, anche con questo album essi sottolineano di rimanere un gruppo di puro Heavy Metal. Il loro ambito è rimasto lo stesso, e se non sparano più proiettili infuocati, hanno lo spirito del “true”. Quello che si perde in velocità lo si acquista in epicità, anima che usano con una certa nonchalance. Come al solito realizzano un album con la dignità di chi non si preoccupa più di tanto e anche se non sono più i migliori (alcune nuove band suonano alla Iron Maiden meglio degli Iron Maiden), sono ancora navigatori esperti, o se vogliamo, esperti della “Guerra Metal”.
Roberto Sky Latini
Parlophone
www.ironmaiden.com
CD1
Senjutsu
Stratego
The Writing on the Wall
Lost in a lost World
Days of Future Past
The Time Machine
CD2
Darkest Hour
Death of the Celts
The Parchment
Hel on Earth
Bruce Dickinson – vocals
Dave Murray – guitar
Adrian Smith – guitar
Janick Gers – guitar
Steve Harris – bass
Nicko McBrian – drums