Irdorath

The Final Sin

Il Progressive Rock dei primi anni settanta era pregno di sperimentazione e di sonorità avanguardiste che si espandevano in approcci sia orecchiabili, sia toccando variabili meno ortodosse. Nel tempo quei suoni sono diventati patrimonio condiviso, ma forse oggi si sono relegati nel campo dell’underground, non hanno più il senso popolare di allora. La cosa strana è che alcuni dischi considerati poco commerciali oggi, allora trovavano un mercato meno taccagno, vendendo tra un pubblico più curioso ed aperto, diventando così mainstream anche essendo un genere elaborato. Fu così che Yes, Pink Floyd e Genesis trovarono successo nonostante i loro passi alternativi. Fu il 1971 però l’epoca in cui il progressive iniziò a sfornare composizioni più mature e profonde, in cui si cominciò a far progredire i sensi in modo ampio. I Van Der Graaf Generator, più vicini agli eclettici King Crimson che al più accattivante stile degli Yes o dei Pink Floyd, sfornarono un lavoro come ‘Pawn Hearts’, il loro più importante successo tra il pubblico (particolarmente ben accolti in Italia), ma che è anche davvero il loro miglior lavoro. Ai giorni nostri suona ancora sperimentale perché questo tipo di sound è meno accessibile rispetto a quello delle altre prog-band, ormai entrate nelle orecchie come patrimonio comune e familiare da non apparire più sperimentali. Ma i King Crimson e i Van Der Graaf Generator, nella loro migliore forma, talvolta non sono stati “suoni e canzoni”, spesso possono essere visti come produttori quasi di astrazioni, che oggi ascoltiamo sì normalmente ma non così in modo esteso fra i fruitori. Questo disco appare ancora attualmente come un viaggio dall’atmosfera futuribile, mentre invece è musica vecchia di cinquant’anni; cinquantennale quindi, anniversario di un album importantissimo, pubblicato nell’ottobre del 1971.

La track-list è composta da tre suite e da una strumentale, unica a durare meno di tre minuti, quest’ultima però fu inclusa solo nella versione americana. ‘LEMMINGS’, di quasi dodici minuti,  è sicuramente un pezzo grandioso, modulandosi tra passaggi soffici e tonicità che arrivano anche improvvisamente come un sobbalzo, sempre emergendo con una estrema intensità espressiva, a volte con flessuosa malìa, talvolta eterea, altre volte con martellante e fisica ossessività.  Se l’iniziale pianoforte di ‘MAN-ERG’ introduce ad una melodia più fruibile e orecchiabile, e qui la vocalità è fortemente vicina a quella di Bowie (con la sua stessa anche tipologia di scrittura formale), quasi al terzo minuto le connotazioni cambiano riportandoci ad una esasperazione espressiva che si lega al senso sperimentale del primo brano, e quando ci si calma verso un ritmo bluesato, con le tastiere e la voce si utilizza una impronta teatrale che enfatizza il suo andamento. L’assolo di sassofono ivi contenuto, è dapprima sinuoso, denso, ma attorniato da strumenti irrequieti, e poi si fa nervoso, guidando però verso un cantato soft che riporta all’inizio brano; sono oltre dieci minuti di pregnanza artistica che ha senso più compiuto rispetto alla prima traccia, usando sì anche dissonanze ma gestendo più l’atmosfera che la stravaganza. Ben fino a ventitré minuti giunge ‘A Plague of Lighthouse Keepers’ divisa in dieci segmenti; in questa song si passa da una avvolgenza spaziale da film di fantascienza, ad una parziale incombente oscurità, per poi passare ad un rock più classico, successivamente in modalità “scompiglio”, e ancora in un mood dolce per infine ritmare una accensione schizoide.  ‘Theme One’, la cover presa dalla discografia di George Martin, ex produttore dei Beatles, si dipana senza eclettismi, elegante ma frizzante, ariosa; chiaramente si sente il senso di sigla che l’autore gli aveva dato visto che era stata scritta per la BBC; i Van Der la usarono come singolo, ma è lontana dal carattere dell’album, ed infatti va intesa solo come presenza promozionale.

Gruppo inglese, in una epoca dove la Gran Bretagna aveva fatto emergere i nomi tutelari di tutto il rock, da quello più folk-blues a quello più hard, i Van Der si trovano a combattere la loro battaglia musicale con lo stesso spirito evocativo degli altri, senza temere rivali, e lo fanno con decisionalità segnata da una forte personalità,  realizzando un maestoso album. La voce ha qualcosa che la accomuna a David Bowie, lo stesso Bowie in alcune sue musiche sembra essere vicino a certe atmosfere dei Van Der Graaf. Ma nei Van Der si usa una declinazione rock che tocca spesso anche il Jazz. Ogni traccia qui dentro vive di sezioni che apparentemente sono distanti l’una dall’altra dal punto di vista estetico, ma l’insieme regge con un fascino che sembra far coesistere, senza fallo, le diverse sfaccettature sonore. Se le idee vogliono essere innovative, però l’effetto finale è di grande comunicatività, provvedendo ad una emozionale sensibilità. Oggi siamo abituati alle dissonanze, ma allora erano un punto a favore della musica alternativa, e davano un senso “altro” di cui non si poteva fare a meno. Le tastiere suonano in modi diversi nel loro essere elementi importanti, e importante con la stessa incisività risulta il sax; entrambi gli strumenti sono fortemente caratterizzanti la proposta. La chitarra è personaggio minore. Le esacerbazioni vibrano insieme ad una presenza di spirito che testimonia come tutto sia ottimizzato, non lasciato al caso. C’è intelligenza ideativa ma anche un alto livello di tecnica. Questo album è un fondamentale pezzo del puzzle Progressive sebbene i King Crimson abbiano musicalmente detto di più in questa modalità espressiva, però se il gruppo è “minore”, non lo è questo disco che contribuisce in modo sostanziale ad aumentare il peso qualitativo degli anni settanta. Album  geniale.

Roberto Sky Latini

Art Gates Records
www.irdorath.net

Chains of Virtue
Debaptized
Redeemer of the Heretics
Divine Delusion
Disgust of Enlightenment
The Anthem of the Final Sin
The Plague, I Am
Shatter of Worlds
When the Last Bell Falls Silent

Markus – Vocals & Guitar
Craig – Guitar
Mario – Bass
Thomas – Drums