INTERVISTA AI GRAVESTONE

Una fluida intervista online ad un frizzante Gabriele Maschietti, chitarrista, che nel suo modo di parlare e gesticolare, dicendo anche in modo diretto le cose,  ha reso dinamicamente allegra l’intervista. Egli ha posto molto di se stesso nell’opera e la passione con cui lo racconta lo testimonia.

I Gravestone sono una band già collaudata anagraficamente perché si parte dal 1994. E’ stato un tempo frammentario, o esiste un senso di continuità?

Un senso di continuità c’è, nel senso che rispetto alla formazione iniziale nata nel 1992, troviamo nella formazione attuale due dei fondatori storici, però allo stesso tempo la storia in sé è un po’ spezzettata perché dopo il primo disco del 1994 ‘Symphony of Pain’, i Gravestone si sono separati per più di vent’anni. Io non c’ero, nel ‘94 avevo nove anni. Dopo questo ventennio di split-up, Marco Borrani, che è l’altro chitarrista oltre me, ha deciso di ricominciare questa avventura, quindi nel 2015/2016  ha iniziato a reclutare nuovi musicisti tra cui Massimiliano Salvatori al basso con cui condivido pure un’amicizia e l’esperienza in qualche band precedente ai Gravestone. E’ stato lui poi che mi ha introdotto al mondo Gravestone, quindi prima che vi entrassi io c’era il bassista Salvatori, c’era David Folchitto alla batteria che c’è tutt’oggi. C’era Fabrizio DiCarlantonio alle tastiere e Alessandro Iacobellis alla voce. Con quella formazione hanno cominciato a fare qualche prova e hanno inciso l’ep di cinque pezzi del 2017 ‘Proud to be dead’. Poco prima dell’uscita di questo ep sono entrato io senza però poter registrare le mie parti perché già era tutto finito, sono arrivato proprio in extremis, praticamente solo per la foto. Dal 2017 abbiamo iniziato una serie di concerti, di minitour, anche di supporto a parecchie band importanti nel nostro genere, I am Morbid, Pestilence, Immolation, Faceless, dove ci siamo divertiti. Nel 2019 è entrato alla voce Daniele Biaggiotti al posto di Alessandro Iacobellis, ed è tornato Massimiliano Buffolino, l’altro co-fondatore, a chiudere il cerchio alle tastiere, al posto di Fabrizio. E in questo modo siamo arrivati al 2021, anno di uscita del secondo full-lenght ufficiale ‘Ars Arcana’.

Discografia Gravestone

‘Symphony of Pain’ – 1994
‘Proud to be Dead’ (
ep) – 2017
‘Ars Arcana’ –
2021

Simona ‘Sandcrow’ Guerrini – Vocals
Marco Borrani – Guitar
Gabriele Maschietti – Guitar (Crystal Fury)
Massimiliano Buffolino – keyboards
Massimiliano Maax Salvatori – Bass  (Rosae Crucis, Forgotten Dust)
David Folchitto – Drums (Stormlord, Fleshgod Apocalypse, Screaming Banshee, Prophilax )

Dal punto di vista musicale e sonoro che continuità c’è?

Insieme ai due co-fondatori, rimane anche quella matrice Death Metal anni novanta old-school, sempre presente nella scrittura dei pezzi, per i riff da parte di Marco e delle tastiere da parte di Massimiliano. Ma è chiaro che dai quei vecchi Gravestone ci siamo un po’ distaccati, non del tutto volontariamente, ma semplicemente per il fatto di avere nuovi membri, ognuno con un background musicale diverso e stratificato; ciò è andato semplicemente ad aggiungere dei valori alla musica dei Gravestone. Ottima musica anche prima, ma il contesto è diverso, al tempo c’era stata l’esplosione del Death coi Sadist, che saluto perché abbiamo fatto anche un tour bellissimo insieme, ci siamo divertiti tantissimo, grande Trevor e i ragazzi. Quello che abbiamo portato noi, Massimiliano col Power Metal, venendo dai Rosae Crucis, e io dal power metal suonato, ma come ascolti più sul Thrash, e qualcosa di Prog, ha dato delle variazioni; ma ognuno dei membri ha portato un bel po’, diversificando fino ad avere il prodotto di oggi.

Ma tu in particolare che esperienze hai fatto precedentemente ai Gravestone?

Per quanto riguarda il metal, a parte il gruppetto classico del liceo dove cominciavamo a divertirci ed esplorare il rock anni settanta, Pink Floyd, Deep Purple, tutto quello che era quel panorama, il primo mio grande amore, penso come la stragrande maggioranza dei metallari, è stato Metallica ed Iron Maiden, quindi parto proprio dal classico, Poi ho militato per qualche anno insieme a Massimiliano Salvatori in una band power-prog che erano i Crystal Fury. Inoltre ho partecipato ad un altro progetto, questo invece Heavy Metal,  ancora insieme a Max, che avevamo chiamato proprio Ars Arcana perché volevamo portare avanti questa idea che era già nella nostra testa. Lì poi non se ne fece nulla per varie divergenze, e infine abbiamo portato tale progetto all’interno dei Gravestone, i quali l’hanno accolto con grande entusiasmo; sono stati d’accordo a procedere in questa direzione.

In effetti in questo disco vi sono molte ispirazioni. Al di là di quando sono nati, i Gravestone mi sembrano in questo momento molto moderni, sembrano girare dinamici. Ma come suoni abbiamo un contenitore che non appare del tutto estremo. Possiamo sentirci i Dimmu Borgir come i Rhapsody Of Fire. Come avete vissuto questa scelta? Qualcuno nel gruppo tirava più da una parte e qualcuno più dall’altra?

Quello che dici è verissimo, posso dirti che abbiamo fatto anche una riflessione su questo, magari la gente si aspettava un album più diretto, più Death, più cattivo. Gran parte del merito o del demerito, a seconda dell’ascoltatore, della commistione di generi è soprattutto del fatto che è un concept. Noi abbiamo seguito l’ispirazione che la storia del romanzo ‘Gens Arcana’ [romanzo fantasy del 2010 n.d.r.] di Cecilia Randall [Cecilia Randazzo, scrittrice italiana n.d.r.] ci ha ispirato. Per musicarlo non abbiamo voluto metterci in una gabbia, rispettando solo un genere, narrando quelle atmosfere solo attraverso un genere, ma abbiamo cercato di cogliere tutte le sfaccettature del metal in generale per raccontare al meglio ogni momento del libro. Quindi quando c’era bisogno della parte violenta c’è la violenza, quando c’era bisogno del momento solenne c’è la musica classica. Non ci siamo posti limiti, e tutti quanti devo dire hanno remato nella stessa direzione, nessuno ha storto la bocca. Pur essendo stata una pre-produzione molto lunga, complicata, difficile, lo è stato solo per il livello tecnico, mentre per quanto riguarda l’unione di intenti non ci sono stati problemi. E’ stato assolutamente molto bello e divertente.

Dal punto di vista tecnico c’è del virtuosismo, però sembra tutto dimensionato all’evolversi descrittivo del viaggio sonoro, senza esagerare con un virtuosismo fine a se stesso. Quanto è stata dura limitarsi e tagliare, se ciò è successo?

Non c’è stata sofferenza, riteniamo di esserci sfogati abbastanza. Il virtuosismo ci piace per quello poi che riusciamo a metterci, anche perché nessuno di noi si proclama mostro di tecnica. Però insomma la usiamo, ci piace, ci fa divertire, puntiamo però più al bel pezzo che funzioni anche solamente per noi, non strizzando l’occhio di qua e di là. Se una bella canzone ci piace la portiamo avanti, l’importante è che ci convinca e che racconti appieno tutto quello che ha da raccontare quel testo, quella lirica, quel momento, e poi se in mezzo ci capita un pezzetto virtuoso, perchè no, senza esagerare?

C’è soprattutto una densa atmosfera.

Noi volevamo fare un un audiolibro, un racconto da ascoltare. Speriamo di esserci riusciti.

Tra i virtuosismi si sentono molto le tastiere, che a volte sembrano le tastiere del Melodic-Death, altre volte quelle del Power o dei Deep Purple.

C’hai tanato in pieno, completamente. Massimiliano, il tastierista, è amante dei Deep Purple. Suona le tastiere proprio in quel modo. Noi abbiamo tirato verso qualcosa di più moderno, qualche synth, qualche moog. Da questa commistione di idee è nato il disco. Le tastiere sono molto presenti, sono le fautrici ufficiali dell’atmosfera, una atmosfera che ci è piaciuta particolarmente. Se non c’era una voce pulita a cantare la melodia, la melodia veniva fatta fare alla tastiera. Quindi abbiamo canzoni in cui la tastiera è un altro cantante. Non sappiamo se proseguiremo su questo filone. Questo disco abbiamo voluto raccontarlo in questo modo, adesso non so se il prossimo sarà fatto da pezzi di tre minuti; vedremo quello che avremo da dire.

Secondo te la musica estrema cosa regala alla musica, in termini di atmosfera, rispetto agli altri tipi di metal?

Eh, questa è difficile! Io mi sono avvicinato all’estremo di recente, arrivando ai Gravestone. Forse sono il meno indicato a risponderti. Però devo dire che proprio per questo, Pur essendo fieramente e pienamente metallaro, sai quelle cose: “sai…ascolto tutto, tranne…” [ride n.d.r.], il mio tranne cadeva un po’ sull’estremo, più sul Black che sul Death. Di Death metal qualcosa già ascoltavo, i Death stessi, ecco quelli si. Ma forse proprio per questo, per questo mio essere stato lontano dall’estremo, riesco a vedere come l’estremo dia una narrazione molto più introspettiva e una sfaccettatura più filosofica rispetto agli altri generi. Gli altri generi affrontano i temi in maniera, mi viene da dire, diretta, a volte spicciola. Non che sia un difetto, da amante del Thrash sono assolutamente tifoso dell’approccio diretto, però nel Death ho trovato questo piacere, essendo in questo caso l’autore dei testi, di raccontare gli stati d’animo dei personaggi. Si tratta dei meandri più profondi che la coscienza a volte non vorrebbe neanche sentire. I pensieri più sporchi che tutti quanti hanno, pensieri che vanno affrontati perché fanno parte della vita. Secondo me il death metal lo fa in maniera eccellente.

Come sei stato stimolato a voler estrarre un concept dal romanzo?

La storia è carina. Leggo questo libro circa dieci anni fa, regalato dal papà di una mia ragazza dell’epoca, oggi ex. Ne rimango entusiasta e penso: “Possibile che nessuno ne abbia mai fatto un film, una serie tv, un disco?” Così mi riprometto un giorno di farci qualcosa, magari musicarlo. Per anni il progetto era rimasto solo nella mia mente. Poi ho provato con Massimiliano Salvatori a riproporlo, come ti dicevo, nella band Heavy Metal in cui abbiamo militato. E infine ritirato fuori al momento di scrivere il nuovo disco coi Gravestone. Ho trovato tanto entusiasmo, i ragazzi hanno subito preso il libro, letto anche loro per calarsi ed immedesimarsi nelle atmosfere che dovevano raccontare. Io ho pensato bene di scrivere a Cecilia Randall, autrice italiana del libro, e di raccontarle di questa cosa, chiedendole se le avesse fatto piacere, e anche piacere di essere menzionata, e se potevamo liberamente ispirarci a questa opera. Lei è stata entusiasta, molto carina, abbiamo avuto uno scambio di mail abbastanza fitto. Abbiamo scoperto che ascolta anche l’Hard Rock, vi arriva però come punto ultimo dei suoi ascolti. Ha espresso curiosità; mi ha chiesto come mai una band Death Metal, dopo aver capito di cosa si trattasse, volesse raccontare il suo libro. E’ nata questa collaborazione, ufficializzando la cosa, in quanto i suoi agenti e la nostra etichetta, la Elevate Records, si sono sentiti, e accordati. E’ stato molto stimolante e per me è stato un sogno realizzato.

L’ha ascoltato poi il vostro disco?

Si, aveva voluto ascoltare le pre-produzioni e leggere i testi per capire a che livello avevamo attinto dal libro. E ci ha fatto i complimenti. E’ piaciuto molto. Il disco finale invece credo non l’abbia ancora sentito perché abbiamo avuto problemi di stampa.

Nella vostra musica c’è una certa attitudine progressive. Secondo me la modulazione dei passaggi sonori lo dimostra. Secondo te invece questa vena prog come l’esprimete? Qualcuno di voi ha una retroterra più prog degli altri?

Credo che anche in questo caso i responsabili siamo io e Massimiliano perché coi Crystal Fury suonavamo un Power-Prog. Lo mettevamo dentro perché lo ascoltavamo; in realtà non sarebbe servito perché la band era nata come band Power. Si, nei passaggi, nelle evoluzioni anche armoniche, perché non sempre queste armonizzazioni sono lineari. Ci piace spaziare senza frastornare troppo l’ascoltatore, però ci piace stupire con cambi improvvisi. E poi nell’utilizzo dei tempi dispari abbiamo David che è maestro ormai, e ci ha stimolato parecchio nella scrittura di questo tipo di strutture.

Uno dei brani che preferisco è “Ignis”. E’ un esempio, tra gli altri, di arrangiamento ricco ma non pomposo. Non si perde mai la scorrevolezza. E’ così in tutto il lavoro, ma ‘Ignis’ è particolarmente fluido.

Mi coinvolge personalmente. ‘Ignis’ è stato uno dei due pezzi, l’altro è ‘Terra’, che io personalmente ho portato per intero. Probabilmente sono scorrevoli per il discorso del mio approccio Thrash. Non pensavo potessero essere mai pezzi per i Gravestone, però li ho portati, e ho spiegato che uno doveva parlare dell’elemento “Terra”, e l’altro dell’elemento “Fuoco”, perché avevo cercato di dar loro tali atmosfere proprio scrivendoli con quell’intento. Pensavo che fossero brani diversi dal genere Gravestone, e invece è successa la magia. Sono arrivati gli altri: “Perché non mettiamo questo? Perché questo giro non lo mettiamo di qua? Perché non lo mettiamo colà?” E questo brano è diventato abbastanza naturalmente quello che senti. La lettura del libro è stata fondamentale per tutti, cioè quando ho detto: “Questa è ‘Ignis’, parla del fuoco”, non è servito dire altro. Massimiliano sapeva già quale tipo di suono, di pad utilizzare, per richiamare scale orientali, atmosfere desertiche.

‘Aqua’, forse l’apice compositivo del vostro lavoro, è il pezzo più prog dell’album.

Si, forse insieme a ‘Quinta Essentia’ che ha quella sezione lunghissima finale, strumentale, che praticamente è un riassunto dei pezzi, dei segmenti più importanti delle varie canzoni, riarrangiati e suonati diversamente, messi tutti insieme in un filo logico, a chiudere il cerchio degli elementi.  Un esperimento per gli ascoltatori più attenti. ‘Aqua’ non l’ho composta io, è nata soprattutto dalla penna di Marco. E’ un pezzo che invece io avrei voluto scrivere perché l’acqua è il mio elemento per quanto riguarda i segni zodiacali. Lui arrivò con questo pezzo, molto bello e di atmosfera, e davvero molto “acqua”, e per aggiungere ancora un po’ di acqua abbiamo voluto fare questo esperimento di chiamare Ketty Passa che è una voce abbastanza pop-rock anche per il suo background sia di ascolti che di produzione musicale, tra l’altro cantante dei Rezophonic, il progetto di Mario Riso, di Pino Scotto, insomma tutta la gang di Milano, che è molto figo perché fanno della beneficienza importante. E poi ha un progetto nuovo, Kemama, che saluto anche perché sono amici, di cui consiglio anche l’ascolto perché è un bel rock particolare e moderno. Lavorare con Ketty è stato bellissimo, facile lavorare con chi lo fa di mestiere, stupendo che arrivi in sala sembrando che nemmeno stia effettivamente registrando. Sembrava facesse una prova, poi la vai a risentire ed è già la linea completa. Su questo ci ha dato una grossa mano, tra l’altro ha scritto di suo pugno la propria parte melodica, non le liriche ma è stata brava ad adattare la melodia al contesto.

I Fleshgod o i Dimmu Borgir fanno cose simili, ma qui avete espresso una forte personalità, diversa dalla loro. C’è anche della tradizione ma va saputa trovare. Avete trovato una forma che abbandonare solo dopo un disco sarebbe un peccato.

Hai ragione [ride n.d.r.], ma attendiamo pure la risposta del pubblico. Magari ai più non piace, e solo qualche amatore lo apprezzerà. Se ci tireranno i pomodori vireremo un po’, ma non troppo perché teniamo a ciò che vogliamo trasmettere. Se in un dato momento dobbiamo fare musica classica con due chitarre elettriche dentro, ce le buttiamo, e se riteniamo di fare un blast-beat pazzo a 2.20 con scream e growl che si rincorrono, facciamo quello. Quindi veramente è molto a sensazione, basato sul momento. Scriviamo abbastanza insieme, anche se ognuno di noi arriva con un suo riff, a volte con un proprio pezzo totalmente scritto. Ma poi quando arrivi in sala gli altri te lo stravolgono, e questo è un piacere. La canzone si trasforma da un pezzo di chi lo scrive ad un un pezzo dei Gravestone.

Le strutture non sono statiche, i pezzi sono arrangiati con ricchezza. La costruzione sembra necessitare di testa, ma poi nel tutto  si percepisce spontaneità. Come avete trovato l’equilibrio espressivo?

L’equilibrio mentale è stato difficile da trovare, sinceramente all’inizio c’è voluto un pò. Massimiliano ha un suo stile, che è ottimo, ma è un tipo; non è tutti gli stili che noi volevamo dentro. Noi gruppo insistevamo a volte per altri lidi, e quindi c’è voluto un po’ per aggiustare il tiro. Ma una volta capito cosa volevamo da ogni pezzo, e avevamo magari capito una sorta di struttura principale, una base di supporto, una frase, una melodia, allora proseguivamo abbastanza tranquillamente. Una volta entrati a capire questa dinamica costruttiva , siamo andati spediti e la difficoltà poi è solo diventata mixare e scegliere bene i suoni che fra loro sarebbero potuti uscire meglio nel mix finale. Anche se devo dire, di dover dare atto al grande Stefano Morabito, che approfitto di ringraziare, dei 16th Cellar Studio di Roma, che ha fatto un lavoro mastodontico. Gli abbiamo portato un progetto di tastiere vergognosamente gigante [ride n.d.r.], e lui è riuscito a far sentire quasi tutto ciò che volevamo. E’ chiaro che in nome della buona riuscita del lavoro non poteva entrarci davvero tutto, e quindi qualche cosa abbiamo limato, però siamo molto molto soddisfatti del prodotto finale.

Un altro reparto tecnicamente curato è stato quello delle voci. Non sono sempre lo stesso timbro, non sono sempre la stessa tipologia. Addirittura sovrapposizioni interessanti. Insomma un’ampia variabilità.

Ti rispondo con una frase di una mia maestra: “Se studiando un libro lo sottolinei tutto, è come se non lo sottolineassi”. Fare un disco dove c’era una sola tipologia di voce quando avevamo fatto quel tipo di lavoro con chitarre e tastiere, e poi bruciare tutte le atmosfere con un growl solamente brutale su tutto il disco, ci sembrava veramente un omicidio. Per merito della grandissima Simona “Sandcrow” Guerrini, che pure è entrata da pochissimo con noi, a registrazioni già cominciate sostituendo Daniele Biagiotti, abbiamo studiato molte soluzioni. Veniva da un paio di stili come marchio di fabbrica, una sua comfort zone, ed è stato divertentissimo spronarla ad esplorare nuovi lidi, a trovare dei mid-range più incisivi, oltre al growl cavernoso o allo scream acido. Lei sosteneva inizialmente di non avere questo mid-range, invece poi l’ha trovato alla grande ed è la colonna portante del disco. Grazie a questo cantato in mid-range abbiamo potuto diversificare le varie atmosfere aggiungendo inoltre sovrapposizioni di growl quando serve e di scream quando serve. Tali espressività funzionano nei pezzi più esplosivi, ma grande risposta c’è stata anche nei cantati puliti. E’ stato tutto molto stimolante. Nel lirico lei invece è una maestra, essendo laureata in conservatorio, quindi quello le è venuto naturalissimo. Vi sono anche pezzetti in cui canta in modo naturale, aggressivamente ma non in growl o screaming. Ha scoperto di poter utilizzare alcune modalità proprio lì, in sede di registrazione, tutte belle scoperte.

Essendoci due chitarristi, come vi siete avvicendati?

L’approccio è stato abbastanza moderno, abbandonando un po’ quello che si faceva prima, che a noi piace tantissimo per inciso, ma che abbiamo deciso di sacrificare in favore della modernità, quindi disco registrato per la maggior parte da una mano sola, che è la mia per quanto riguarda tutte le ritmiche e le mie parti soliste. Marco ha invece inciso tutti i suoi soli e qualche armonizzazione ai miei lead. Abbiamo deciso quindi di registrare con una mano sola che avrebbe dato il muro portante. Tanto in sede live ci sarà da sfogarsi per entrambi e da dividersi le parti che sono veramente complicate, ricreando due linee di chitarra per affrontare la parte dal vivo.

Dalla variabilità del disco, e dalle parole che fin qui mi hanno spiegato la registrazione, appare come se vi foste divertiti anche durante i momenti in studio per capire dove poter arrivare. Pur con il materiale già  pronto anche in studio avete provato cose nuove?

Si, è andata così. Arrivati con le pre-produzioni tutte fatte, quindi con le idee già strutturate. Però in effetti in studio ci siamo dilungati perché volevamo farlo bene. Non volevamo fare un copia-incolla con il materiale fatto a  casa, ma volevamo vedere se con mezzi più potenti potessero arrivarci nuove ispirazioni e nuovi modi di registrare ciò che invece avevamo già pensato. Quindi abbiamo sperimentato parecchio anche in studio.

La sezione ritmica basso-batteria è micidiale.

David Folchitto [drummer n.d.r.] non penso abbia bisogno di presentazioni. Su Roma, a livello italiano, a livello internazionale, dopo l’esperienza Fleshgod Apocalypse, è entrato ufficialmente nell’olimpo dei musicisti quelli veri. Massimiliano Salvatori [al basso n.d.r.] veniva storicamente da una esperienza importante ventennale coi Rosae Crucis, grandi esponenti anni novanta del Power-epic italiano. Su questo disco incredibili tutti e due. David ha scritto le batterie mentre era in tour coi Fleshgod, ascoltando le nostre pre-produzioni, tanto che lui non ne è soddisfatto e ha detto che se fosse stato in loco le avrebbe sicuramente scritte meglio. Noi per farlo contento gli diciamo di si, ma invece ne siamo molto soddisfatti. Massimiliano ha dovuto sbrigarsi più di tutti a costruire le sue linee perché lui ha dato una grande mano in fase di pe-produzione sia come arrangiamento sia proprio come parte tecnica, addetto al computer e alla registrazione. Perciò questo ha lasciato un po’ indietro il suo lavoro sullo strumento, però in studio come tutti s’è messo lì a sperimentare; e man mano sono venute fuori linee di basso che sono martellate di qualità.

Considerando la voce narrativa, per quanto bella virile, non si poteva ridurre lo spazio del parlato?

Ce l’hanno detto in tantissimi [ride n.d.r.] e probabilmente avete ragione, però a noi lì per lì non è sembrata una brutta idea. Per il parlato ringraziamo Daniele Coccia de Il Muro Del Canto; l’abbiamo voluto, a parte che con Daniele ci vogliamo bene da vent’anni, è proprio un amico, ma poi ha una voce profondissima, timbro veramente fantastico. Gli abbiamo chiesto una cosa per lui Hardcore, cioè parlare inglese [ride n.d.r.] e infatti qualcuno ce lo ha puntualizzato. Però quello che volevamo fare era restare in Italia come tematica e come atmosfera, quindi era come impersonare un antico nobiluomo fiorentino che racconta la storia in quel momento, e allora l’accento maccheronico va bene che ci sia. Mentre nelle parti impersonali, dove ha dovuto parlare un inglese più preciso, è comunque stato bravo. Per quanto riguarda la lunghezza ci siamo forse lasciati prendere la mano, però l’esperienza narrativa doveva usare le parole oltre che la musica anche per far capire a chi non ha letto il libro di cosa si parla.

Che visibilità hanno i Gravestone?

I Gravestone devono continuare a remare in questa direzione perché adesso è il momento di spingere, anche se sembra paradossale dato che veniamo da un momento che ha rallentato tutti quanti. Bisogna dare una spinta al progetto non solo per hobby. E’ un progetto che ci convince, ci piace, e per avere visibilità questo è il primo passo, cioè essere convinti e innamorati, perché se non ci credi neanche tu è facile che vada a rotoli presto.

Il disco è abbastanza complesso, con tutto quello che ci avete messo dentro sembra improbabile che abbiate materiale messo da parte.

La situazione sentimentale dei Gravestone è questa: non vediamo l’ora di scrivere il prossimo disco [ride n.d.r.]. Ma ci rendiamo conto che dobbiamo ancora imparare a portarlo in giro bene. Ci stiamo preparando per far funzionare, con tutti i crismi, questa musica sul palco perché questo disco se lo merita. Di altro materiale qualcosina c’è, io poi ogni tanto butto giù qualcosa, qualche riff qua e là sparso. Ci stiamo forzando a non andare nella direzione compositiva. Stiamo tirando le redini per poter finire il lavoro intorno ad ‘Ars Arcana’ al meglio. Dopodiché penso che l’esplosione sarà talmente violenta da finire in un mese [ironico n.d.r.] perché siamo già tutti eccitatissimi, anche se indirizzati a scrivere un album completamente diverso. Questo al momento, poi non lo so se cambieremo idea, anche se vedrai che andrà a finire che complicheremo pure il disco futuro.

Questo disco non sembra difficile da riprodurre dal vivo. E’ così?

Tutto merito di Stefano se appare così, in realtà ci sono tantissime sovra incisioni, per cui non è semplice. Dobbiamo ricreare linee più presentabili per il live, anche se quello che c’è di sovrainciso è solo un arricchimento di atmosfera. Le linee guida sono molto precise e definite. Comunque siamo due chitarristi quindi abbiamo modo di armonizzare e divertirci. Discorso diverso per le tastiere la cui orchestrazione è stata affidata a Riccardo Studer, nel senso che Massimiliano Buffolino ha scritto tutte le parti, però per i suoni veri e propri ci siamo affidati alle librerie di Riccardo, il quale anche lui, fenomenale, ha dato il plus che serviva. Però quando sotto ad un pezzo ci sono sezioni di archi e cori, quelli andranno in base e Massimiliano sarà più libero di utilizzare le parti solistiche

Avete una risposta di qualche tipo dall’estero?

Le recensioni migliori sono arrivate dalla Germania, dal Messico, paesi che già ci sostengono da prima. La promozione è stata un po’ rallentata, dopo ottobre potrei risponderti meglio. Usciranno un paio di Lyric video, ‘Aqua’ e ‘The Death of Folco De’Nieri’ in cui abbiamo invitato ospite Giacomo Voli dei Rhapsody of Fire. Poi vogliamo fare il video-clip. Speriamo che i nostri prodotti  arrivino a più persone.

Cosa vi serve per pensare di proseguire su questa strada?

Non è una domanda facile. Aspettare, ci aspettiamo tanto. Riteniamo di aver tirato fuori un bel prodotto e quindi ci attendiamo che qualcosa si smuova. Chiaro è che la musica non ce la dovete togliere, quindi come va, va, noi continuiamo. Se ci andrà proveremo altre strade, oppure proseguiremo su questa e ci costruiremo la nostra nicchia. Andiamo avanti da amanti della musica in generale.

Vuoi dire qualcos’altro?

Voglio ringraziare tra le guest, unico che non ho citato, e che è stato il più carino del mondo, Cristiano Borchi degli Stormlord che ha prestato la sua voce in una parte di ‘The Slaughter Conspiracy’, in un duetto con Simona: fenomeno. Centrato in pieno il nostro intento. Auguro di poterci vedere live non fra tantissimo, stiamo preparando questo “release party” e di concludere l’anno in modo positivo.

In tempi come questi, finisco le interviste spesso con la stessa domanda. La musica la fate sempre più bella e di buona qualità, però non guadagnate nulla. Chi ve lo fa fare?

La passione e la malattia. Tanto il pensiero di guadagnarci è finito già dai tempi del liceo. E’ ovvio che la gratificazione di andare a prendere qualcosina da SIAE, dal merchandising, ci piace. Facciamo tutti cose da rockstar, ma nessuno di noi lo è. Chi ce lo fa fare? Non lo so, siamo matti. Per la musica assolutamente si, escono cose stupende, fra i tanti voglio citare il disco dei Gigantomachia, un bel disco, una bella evoluzione. Si, non è finito niente, siamo delle menti interessanti. La risposta non dipende solo dai musicisti, bisogna che il metallaro si risvegli un pochino, esca dalla tana.

L’intervista è risultata ricca di diverse curiosità. Un interlocutore molto attento alle domande, che come avete potuto leggere ha saputo spiegare bene i vari aspetti dei compiti svolti attorno al progetto. Ed è emersa tanta voglia di andare avanti, per una opera che merita i nostri più metallici auguri!

a cura di Roberto Sky Latini (05.10.2021)