Basstardy

Intervista a Dino Fiorenza

Un estroverso Fiorenza che mi parla online mentre il suo bambino sale, scende, si muove intorno e addosso a lui.

Parlando si percepisce di come egli sia un personaggio, e le espressioni del volto sembrano voler ampliare ciò che viene detto a parole. Un continuo sorrisetto sotto i baffi esplicita un senso di ironia ma anche di divertimento.

Inizi a suonare negli anni novanta. Hai trascorso questa tua avventura musicale attraverso parecchie collaborazioni, compreso Solieri.

Si, assolutamente. Con Maurizio Solieri è stata una cosa che è nata nel 1992, quando suonavo già da qualche anno il basso, ed in Sicilia ero abbastanza conosciuto per il mio modo virtuoso di suonare. Mi chiamarono per suonare con lui, in un concerto organizzato, mi ricordo, da Andrea Guartarone, un chitarrista siciliano molto molto molto bravo. Quartarone mise su un trio per accompagnare Solieri e facemmo all’epoca una sola data alla Nottola di Siracusa, dove lui  fece il seminario nel pomeriggio, e poi il concerto la sera. Il nostro trio ha aperto la serata, e poi lo stesso trio ha accompagnato Solieri che ha suonato tutti i grandi brani dell’Hard Rock, dagli anni settanta in poi. Andando avanti ho avuto la fortuna di suonare praticamente con tutti i più grandi del pianeta; da Steve Vai a Paul Gilbert, Slash, Zakk Wylde, e via dicendo. Alcune collaborazioni per casualità, altre perché la migliore pubblicità è il tuo operato, per cui dopo aver suonato con i primi, questi indirizzavano a me quei chitarristi che necessitavano di un bassista: “prendi lui che vai tranquillo”. La mia fortuna poi è che ormai a suonare siamo in questo modo siamo pochi. Tutti fanno funky, jazz, la musica “colta” tra virgolette. Per cui in un genere di nicchia chiamano sempre quelli.

E come chiami questa “nicchia”?

Si parla di Guitar Hero, dello shred degli anni ottanta, quando arrivarono tutti quei chitarristi ipervirtuosi, gli alieni. All’epoca furono appunto alieni che arrivarono sulla terra. Lo chiamo shredding, che ormai ha una valenza un po’ di nicchia; sono musicisti ben accolti, molto apprezzati, però forse in questo momento la tendenza è un’altra quindi essi passano, non dico in secondo piano, ma viene accolta altra tipologia di musica. In realtà  secondo me è attuale anche perché adesso i musicisti shred di oggi non sono quelli di una volta che suonavano la pentatonica su tre accordi e si andava alla grande. Oggi sono tutti iperpreparati. Se ti vai ad ascoltare, che ti posso dire, un brano di Greg Howe, serve la calcolatrice per capire l’analisi armonica di un brano. Non è come una volta, senza sminuire nessuno ovviamente.

Questo è il secondo disco. E lo racconti come una raccolta, però concettualmente è un lavoro compatto. C’è molta variabilità, però in una visione omogenea.

Hai azzeccato in pieno. E’ sempre stato il mio obbiettivo tra virgolette. Anche se ascolti il primo disco, ‘It’s Important’, i brani sono diversi tutti uno dall’altro, però c’è sempre la stessa concettualità, perché comunque di fondo quello sono io. In qualsiasi modo io suoni, in qualsiasi modo io intenda i generi, li suono sempre a modo mio. Il Country lo suono in tapping, il Pop lo suono in tapping, il Jazz lo suono in tapping, qualsiasi genere lo suono con le mie tecniche, e quindi questo in realtà, ti ringrazio dell’osservazione, rende il tutto abbastanza originale. I brani sono diversi però si sente che sei tu e quello è proprio l’obbiettivo che più in assoluto avrei voluto raggiungere. Se ci sono riuscito con te, già è un successo.

I brani nuovi, ma anche i vecchi come ‘Liquid’; ‘Mr. Vester’ e ‘Tap that Bass’, usano caratteri espressivi forti. Il tuo basso è quasi sempre impattante. Le delicatezze ci sono come anche i brani calmi, ma l’impatto è netto. Questo dipende da un’anima rock?

Si, l’anima rock è allo stesso tempo la mia anima. Sono così proprio nella vita. Sono d’impatto, prendo le cose di petto. Se tu prendi il brano ‘Slap Machine’ che è l’ultimo del disco, la mia sensazione era proprio la vangata sui denti. Travolgere le persone. Lo faccio io anche nella vita perché sono una persona esuberante ed esplosiva. Si dice che la musica sia lo specchio dell’anima, l’anima si riflette nella musica. Si, è vero che c’è la ballad, il pezzo più morbido, però di base io sono quello lì anche nella vita di tutti i giorni, cioè mitragliatrice a mille, non mi fermo mai! E’ quello che mi piace suonare. Credo che proprio questo sia il Rock, almeno il mio.

Partendo dal fondo. Hai concluso con gli ultimi due brani, in modo più hard, sia ‘The Evil’s Embrace’ che ‘Last Step’. Perchè nella tracklist sono messe alla fine?

In realtà ho voluto seguire una sorta di iter didattico. la prima canzone è ‘One step’ e l’ultima è ‘Last Step’, quindi il primo e l’ultimo passo. Mi piaceva proprio questa idea qua. Ma anche nel libro ho fatto questa stessa cosa, infatti entrambi sono contenuti nello stesso libro. Nel disco ho voluto continuare questo criterio. ‘The Evil’s Embrace’ l’ho sentito come preludio al delirio finale.

Discografia solista:

‘It’s Important’ – 2010
‘Basstardy’ – 2021

Dal disco solista di undici anni fa ci hai messo un sacco di tempo per arrivare a quest’altro. E’ solo una questione di impegni o anche di ispirazione compositiva?

Allora, sarò molto sincero. In realtà al secondo album ancora ci devo arrivare, perché questo qui sono tutti brani editi, che si trovano nei libri che ho fatto. Ne ho fatti cinque, e altri cinque devono ancora uscire. La mia etichetta ha pensato bene che essendo passati dieci anni un altro disco bisognava farlo. Non è una questione di ispirazione, perché io ce li ho i brani per un ipotetico secondo disco, però fortunatamente sono oberato di lavoro e quindi questa cosa purtroppo ti mette nelle condizioni di far passare prima il lavoro piuttosto che il piacere. Chiaramente le bollette le devi pagare [sorride n.dr.], quindi se ti arrivano i lavori li devi accettare. Sei comunque un libero professionista. Questo disco è nato più dall’esigenza della mia etichetta, ma l’ho accolta con piacere perché mi hanno fatto riflettere sul fatto che i libri erano mirati ad un certo tipo d’utenza, e che quindi i brani lì contenuti non raggiungevano tutti, mentre invece in questo modo abbiamo allargato l’ascolto ad una platea più vasta, non solo ai bassisti o ai fruitori del libro. E poi i brani sono belli, scorrono, hanno una loro melodia, non sono fatti solo per la didattica. Ovviamente, siccome si trattava di un disco nuovo, ci abbiamo messo due inediti che sono i due brani di solo basso, uno col basso acustico e quello col basso elettrico.

E come è funzionata la scelta dei titoli degli album? ‘It’s Important’ cosa voleva significare? E adesso ‘Basstardy’ cosa vuol dire?

“It’s Important” era un intercalare che usavo tantissimo ai tempi. “E’ importante” lo dovevo infilare ovunque, in qualsiasi frase. Però in realtà l’ho scelto come titolo del disco  perché è stato un passo importante in quanto musicista. Una realizzazione di un percorso, o persino appunto l’inizio. Per cui per me è stato importante fare quel disco, perché lo feci a quasi quarant’anni. Avrei potuto farlo anche prima però non mi sentivo pronto per un passo del genere. Avrei potuto farlo ma sarebbero stati soltanto esercizi,  mentre ora mi sono sentito più in grado di fare canzoni. Avendolo chiamato ‘it’s Important’ gli amici si fanno una grassa risata pensando che è quello che dico sempre io, per gli altri è un messaggio che sottolinea il coronamento di un sogno, il sogno della carriera di un musicista. Il disco sei tu, rimane a vita, ti rende immortale, no? ‘Basstardy’ è un gioco di parole tra “bass” e “tardi” che in realtà è un messaggio lanciato al fatto che i dischi non si vendono più, quindi “Basstardi, compratevelo!” C’è sempre la parte ludica, divertente, però di fondo un messaggio è sempre presente.

E’ chiaro come il virtuosismo sia alla base di questo tuo lavoro. Però il virtuosismo non è solo nel basso, è in ogni strumento. Non emergi di molto più degli altri, sembra un unicum espressivo.

Si, infatti, per lo tesso discorso che ti facevo prima. Perché ‘It’s Important’ l’ho fatto a quarant’anni? Perché magari  l’avessi fatto dieci anni prima, avrei fatto una serie di esercizi, dove il basso sarebbe stato assoluto protagonista. Anche se con la presenza del virtuosismo, con lo shredding, decisi che dovevano essere canzoni. Quindi ognuno di noi, ogni musicista coinvolto nei brani, doveva avere la sua parte. Ovviamente i brani richiedono che si suoni in modo virtuoso. Se tu ascolti tutte le canzoni sia del primo che del secondo disco, troverai che non c’è per forza l’assolo di basso. Forse in passato ne avrei messo uno in ogni pezzo a rompere praticamente le tempie a tutti. In realtà no, anzi proprio nel brano morbido ‘Little Toy’, l’assolo manco c’è. Quando c’è è perché mi sento di farlo; poi dopo tutto il casino che faccio con lo strumento, credo basti e avanzi. Quindi il solo lo faccio fare ad altri che sicuramente lo fanno meglio di me

Il basso naturalmente si sente molto, ma dentro un senso compiuto della canzone. Sia chitarre che tastiere portano avanti anche loro la linea melodica. Come avviene la procedura di composizione?

Quando faccio i brani, tutto parte da una idea del basso. Magari mentre sto studiando, sto esercitandomi, mi esce un giro che mi rimane nella testa e penso “Questo è una bella figata!” Allora inizio a costruire tutto attorno a quel giro là, può essere un tema, quindi sul quel tema costruisco armonicamente tutto quello che ci può girare sopra. Può essere invece una progressione armonica che mi piace particolarmente, e lì costruisco il tema. E poi creo tutti gli arrangiamenti. Però c’è da dire anche che quando faccio tutto  il brano, tutta la stesura, poi in realtà gli arrangiamenti vengono da sé, perché quando chiamo il chitarrista o il tastierista di turno, li lascio liberi di fare, nel senso che dò loro la linea e il tema ma dicendo; “suona a modo tuo, sentiti libero anche di cambiarlo”. Quando mettono il loro estro, il brano si sta arrangiando da solo. Quella è la figata. Crei un brano senza fare nulla, ci pensano gli altri. Del resto se chiamo quei musicisti è perché voglio il loro tocco e voglio la loro genialità in grado di fare andare le cose da sé. Riguardo al discorso di come sviluppare la creatività, quella è una cosa che viene spontanea. Per me uno deve sentire musica ovunque, anche quando ti alzi la mattina e fai la caffettiera. Tutto è un segnale secondo me.

Sono tanti i musicisti dentro. Ma essendo parte dei libri, l’avrai registrato in più momenti. Quindi hai avuto tutta la calma necessaria di gestirli e decidere.

Si, certo. Per quanto riguarda il primo disco avevo già tutti i brani in testa, come c’ho ora quelli per il prossimo. Quindi la prima cosa che feci, è che man mano che realizzavo i brani, prendevo le linee di basso, registravo le tracce guida e facevo registrare il batterista, e poi mandavo al chitarrista, al tastierista. Però nel frattempo avevo tutto il tempo di cambiare. E’ stato fatto in effetti  tutto con molta calma. E in verità quando mandavo i brani difficilmente ho avuto da ridire rispetto a quello che hanno fatto. Anzi, a volte mi mandavano delle cose che mi facevano cambiare, e così mi uniformavo io a loro perché mi piaceva quell’idea ricevuta. Per esempio in ‘Seven’ [da ‘It’s important’ n.d.r.] c’è una linea dove il batterista  fa una ritmica strana su quello che suono io; dissi di lasciarla com’era venuta e quindi al chitarrista ho fatto fare una ritmica tutta sincopata su un giro di basso invece stretto. E lì è venuto il delirio. Dico sempre: “Ascoltate tutto!” E se magari non era venuto come doveva essere, come era stato chiesto: “Aspetta, vediamo come suona, e…minchia! bellissimo!” Le cose sono state molto ponderate, ma alcuni brani in realtà, quelli registrati con i chitarristi siciliani che hanno registrato qua, suonando insieme in un inter-play, ha avuto un effetto un pochettino più spontaneo.  Vai e registra! In questo modo sono nati ‘The devil on the holy Water’; ‘Devil go’ e ‘Say go’ [anch’essi da ‘It’s Important’ n.d.r.] che hanno preso proprio la cattiveria del momento.

Abbiamo capito che la nascita dei titoli è in alcuni casi legata ad una tua ironia. Ma insomma spiegaci come li decidi visto che sono strumentali.

Dipende dalle sensazioni che mi danno. Questi di ‘Basstardy’ erano mirati al discorso didattico. Soprattutto ‘One Step e ‘Lost Step’ come dicevo, gli altri invece anche dalla sensazione. Ti faccio un esempio: ‘Se prendi il primo disco, ‘Tap that Bass’ nasce proprio dal fatto che è tutto suonato in tapping, la tecnica per la quale tutti mi conoscono; quella che mi ha reso, tra virgolette “famoso”. “Tappa questo basso!”, “Dino Fiorenza: presente!” Quella è stata la presentazione no? [ride n.d.r.]. ‘Seven’ è stato il settimo brano che ho composto, non avevo idee: ‘Seven’, e non c’è nemmeno un tempo in sette ottavi. Si chiama così solo per quello. ‘The Devil and Holy Water’ è nato dal fatto che è un connubio tra jazz e rock; e il chitarrista che vi suona è un mio carissimo amico jazzista con cui abbiamo sempre una diatriba “jazz…metal; jazz…metal”, e lui al contrario di me è completamente calvo e quindi è ‘The Devil and the Holy water’ in tutti i sensi. Il diavolo e l’acqua santa [ride n.d.r.]. ‘Slap Machine’ perché mi ricorda una macchina da slap in quanto: “takatakatakatakataka” tutta fissa così. ‘Liquid’ perché se senti l’intro, ricorda proprio una cosa liquida che scivola, un’acqua che “blubulublublu”. ‘Heavy Street Metal’ mi faceva pensare agli Skid Row, a quel suonare nei sobborghi di Los Angeles. ‘Biondology’ nasce dal fatto che io chiamo tutti quanti “Biondo”, il basso col quale ho registrato Biondology si chiama Mr. Blonde, per cui era tutto perfetto.  Cose del momento, tutto qua; il titolo non lo penso prima. Intanto faccio il brano e poi  il titolo viene da sé.

Perché un  brano intitolato ‘Thank You Max’ ?

Allora, Max è un ragazzo di Niscemi , un paesino in provincia di Caltanissetta, che si chiama Massimiliano Cona, il più grande di tutti. E’ un chitarrista che ha sviluppato la tecnica di Finger Percussion. Una tecnica impostata sulla chitarra acustica che si suona e si percuote. Il brano che ho fatto io è praticamente suonare il basso acustico percuotendo anche la cassa, quindi unendovi gli elementi ritmici, ed è una cosa alla quale mi ha ispirato lui. Il titolo è stato il mio modo di ringraziarlo. Il brano è nato dalla voglia di emulare quella tecnica là.

Il tuo scrivere, pur basato sulla tecnica specifica del tapping, è un panorama che scorre. C’è una ambientazione sensata, con una visione descrittiva esaustiva non fine a se stessa. Quanto ti sforzi e quanto ti viene spontaneo non ridurre tutto a tecnica?

Ti ringrazio per questo. Il più bel complimento. Ti rispondo molto semplicemente. Tutto scorre così, secondo me, perché io sono questo. Per me suonare in quel modo è naturale. Io penso in quel modo. Non è che mi sforzo di arricchirlo. Io inizio a suonare e viene tutto da sé. Non è manco una mia intenzione. Suono. La melodia la faccio associata alla tecnica. Forse proprio perché suono in quel modo mi escono quelle melodie. Probabilmente suonando in modo tradizionale non sarei capace di farle uscire. Non lo so. Ci proverò [sorride n.d.r.].

Hai una forte personalità musicale, e a proposito di concetto sonoro, si può dire che sei ispirato anche dai chitarristi? Nel senso che io ci sento molto Steve Vai.

Bravo, ci hai visto bene anche in questo [annuisce fortemente con la testa n.d.r.], assolutamente si. Non solo i chitarristi, anche i tastieristi. Quando iniziai a suonare il basso, paradossalmente i suoni che mi attraevano di più erano quelli chitarristici e tastieristici. Ho sviluppato questa tecnica proprio per imitare quelle escursioni melodiche che non riuscivo a fare col basso. E quindi si, io Steve Vai l’ho studiato, ma ho studiato proprio lui, non il bassista di Steve Vai. Anche Satriani. Ho studiato molti metodi, per esempio, non convenzionali. Ho studiato il metodo per banjo, per violino, per pianoforte, e li ho riprodotti tutti sul basso. Quando mi sono accorto che mi piaceva molto suonare a due mani sulla tastiera, mi sono detto: “Qual è lo strumento principe? Il pianoforte”. Al che mi ricordo che comprai i primi canoni per pianoforte di Antonio Trombone; me li riscrissi e me li studiai sul basso. Poi dopo ho comprato l’ ‘Invenzione a due voci’ di Bach  e lì ho sviluppato tutta la polifonia. Stessa cosa ho fatto con i chitarristi. Io ‘Tende surrender’ lo so suonare tutto col basso, ma le parti di chitarra. La mia fortuna è che con loro ci ho anche suonato. Sono riuscito anche dal vivo a prendere le cose che più mi attraevano da sempre. Ti assicuro che è spettacolare!

Eh cavolo! Devi farci un video!

Lo faccio, lo faccio. Già era in programma.

Nella tua musica talvolta c’è molto eclettismo, e un brano particolare in tal senso è ‘Biondology’. Mentre nei brani di solo basso sei stato più tranquillo, normale “tra virgolette”.

Soprattutto nel brano ‘Morning Inspiration’ c’è stata una sfida, anche se mi è venuto come sempre naturale. Ho preso tale brano come un inno da contrapporre al detto: “troppa tecnica ti fa diventare freddo”. Invece no, con quel brano in teoria io vorrei dire “Se tu hai più tecnica, non per forza sei freddo” La tecnica è come un martello, tocca a te scegliere se fare una cuccia o la Cappella Sistina. Capito? Io la tecnica la vedo come la grammatica, se tu hai un vocabolario più ricco, sei capace di rendere le tue frasi più colorate, più importanti. Poi, è chiaro che se hai qualcosa da dire, lo dici anche senza conoscere bene la grammatica, ma se la conosci riesci ad esprimerti al meglio. Infatti in quei brani là mi viene più spontaneo essere melodico perché gli assoli a mille li fai insieme agli altri strumenti. Da solo inizio ad esplorare altri territori del basso elettrico che sono proprio quelli melodici, armonici, polifonici. A sentirlo quel brano sembra semplice, poi ti mando il video e dici:”Aspetta, ma che sta succedendo?” Forse è il brano più difficile degli altri, è un basso suonato in modo inusuale, e soprattutto ti lascia qualcosa; quando lo suono dal vivo è sempre un successone, sempre.

A proposito dei live, hai ricominciato?

Dovremmo avere delle date da febbraio. Io sono due anni che sono fermo. Dal 17 febbraio dovrei avere già delle date, ma non voglio spoilerare nulla.

Modalità compositiva dinamica e scattante. In alcuni casi più a salti, altre volte in modo più fluido. Per esempio ‘Biondology’ è nervosa, , mentre ‘All you need is Tap’ è più scorrevole. Quanto dipende a da te e quanto dagli altri strumentisti.

Per me dipende da entrambi. Di base probabilmente da me perché io do la stesura. Ma in questi due casi, trattandosi di brani nati per i libri, dovevo dare indicazioni ben precise. Per esempio ‘All You need is tap’ nasce per far vedere il tapping alla Van Halen. Van Halen non era complicato come tempi, però era bello scorrevole e melodico. Mentre invece ‘Biondology’ nasce per l’uso dello sweep e i tempi dispari. Sono comunque diventati veri e propri brani, però l’idea era quella là, poi non ci penso e vado avanti. E il risultato mi appaga.

Tra i due brani ‘Biondology’ appare quasi prog e sperimentale, mentre ‘All You need is Tap’ è classica, meno personale, per quanto sempre del tuo stampo particolare.

‘Biondology’ a livello di esecuzione è molto più  alto dell’altro, infatti è in un altro libro dove è proprio il delirio, un libro per chi vuole approfondire il mondo della tecnica strumentale. Del resto il libro si chiama: “Shredd workshop, play fast, life is short” [troppo forte! n.d.r.].

Da tutto questo ne deriva che tu non passi per l’Heavy Metal classico, quanto dal metal dei virtuosi.

In realtà l’Heavy Metal classico a me piace tanto e ci sono cresciuto. Gli Iron Maiden sono quelli che mi hanno fatto mettere il basso in mano. Però, sai cos’è? Io ho sempre avuto una visione più omnicomprensiva della musica, sia come genere, sia come strumenti. Mi spiego meglio. Quando io ascolto un brano, non ascolto soltanto il basso, ascolto tutto. Poi colgo le sfumature che più mi piacciono e al 99 % non sono bassistiche. Io sostengo sempre una cosa, che se ascolto solo un tipo di cose, per esempio solo Iron Maiden, suonerò sempre alla Iron Maiden; se io ascolto anche Ella Fitzgerald, metterò nelle mie composizioni delle influenze che renderanno più convincente quello che suono, sicuramente diverso. Lo dico sempre ai miei allievi: “tu ascolta funky per suonare meglio l’Heavy Metal, e ascolta metal per suonare meglio il Gospel”. Per cui è bene studiare tutto e mantenere comunque la propria identità. Inevitabilmente, tutti quegli ascolti là ti daranno una mano, ti daranno creatività. Per esempio, se tu ascolti ‘Seven’, è proprio Fusion alla Casiopea, Chick Corea, musicisti che ascolto tantissimo. Oppure se ascolti ‘The Devil and the Holy Water’ si tratta di foxtrot anni cinquanta, altro genere che ascolto; con quello ho imparato lo slap, non con il funky. Se vuoi suonare meglio la tua musica, non ascoltare solo la tua musica. Nel mio caso è questo.

Cosa puoi dirmi del Vivaldi Metal Project?

Il progetto è una creatura del maestro Mistheria, persona che conosco da sempre, suoniamo insieme da sempre, in tutti i progetti. Abbiamo fatto diversi tour insieme, con Edu Falaschi, con Mark Boals. Quando ha creato quest’opera mi ha chiamato per registrare il basso. Nel disco siamo tanti bassisti, tanti batteristi, tanti chitarristi, circa 130 musicisti; però nella live band ha voluto me, quindi nei tour al basso ci sto sempre io. Ora ha fatto il secondo album, ‘Epiclassica’, che però purtroppo è stato bloccato dal covid. Il disco avrebbe dovuto essere fuori già da un anno, avevamo anche dei concerti di presentazione del disco, sia in Italia che all’estero, ma è chiaramente stato tutto completamente cassato. Nel disco ci sono ospiti illustri, da Mike Portnoy a Jeff Scott Soto, tanti nomi importanti come al solito, mentre la live band rimarrà sempre la stessa con me al basso, poi Leonardo Porcheddu e Michele Vioni alle chitarre, Mistheria alle tastiere, Abby  Stahlschmidt al  violino , un nuovo batterista, Simone Morettin, che sostituirà l’inglese Mark Cross. Poi quattro cantanti;  Tsena Stefanova Kercheva, Nicoletta Rosellini , Angel Wolf-Black, e Gianluca Maracas Mastrangelo, che ha sostituito il precedente Dimitar Belchev. Si spera di far uscire il disco il prima possibile nel momento però più opportuno, cioè quando si potrà promuoverlo con i concerti. Il primo disco è nato essenzialmente come tributo alle ‘Quattro stagioni’ di Vivaldi, in questo secondo sfociamo invece in altre cose, anche brani inediti; questa sarà una bella sorpresa.

Ti piace suonare dal vivo?

Si, più di ogni altra cosa. Secondo me, se c’è un musicista a cui non piace suonare dal vivo, non so nemmeno se definirlo musicista. A me piace taaanto, taaanto, tanto insegnare, mi piace da pazzi registrare in studio, ma l’adrenalina è nel live.

Ti sei allenato in questi due anni di fermo live?

Si, anzi, ho studiato ancora di più perché ho avuto più tempo. Considera che comunque io studio tutti i giorni [lo ripete e lo sottolinea con un movimento orizzontale di mano e braccio n.d.r.], non come agli inizi, però quelle due/tre ore almeno devo starci addosso. In questo periodo però ho fatto molto molto di più, e infatti mi sento più veloce e fluido su certe cose. E poi ne ho approfittato per scrivere altri libri. Piuttosto che abbattermi, ho pensato al futuro. Come insegnante non ho avuto problemi perché già facevo lezioni su Skype perché ho allievi un po’ da tutto il mondo. I lavori in studio si sono incrementati perché tanta gente che prima non poteva farlo, ora ha potuto mettersi a registrare, quindi ho lavorato molto qui nel mio studio. E poi ho fatto questo disco qua. Inoltre non mi è nemmeno dispiaciuto avere del tempo in più perché ho mio figlio piccolino di tre anni e me lo sono proprio goduto, ho visto il lato positivo, cioè lui: Marco.

Tu sei di Catania. La collaborazione con i Metatrone?

I Metatrone nascono da un progetto di un mio carissimo amico col quale ci conosciamo da tutta una vita. Cresciuti proprio assieme. Nella sua vita è diventato prete. Agli albori del primo disco io c’ero, poi io me ne sono andato per seguire la mia strada. Circa dieci anni fa, il bassista loro, un mio allievo, se n’è andato, e non è che c’è stato bisogno di dire : “Dino suoni?” In modo naturale ho preso il basso, siamo andati in sala prove e sono diventato il bassista dei Metatrone. Conoscendo Davide Bruno da sempre, ora non è più prete, ho condiviso e sposato il progetto in pieno e abbiamo fatto tante tante belle cose. L’ultimo è stato il disco ‘Eucharismetal’ che ha avuto tante recensioni positive, abbiamo fatto parecchi concerti un po’ per l’Italia, e alcune in Europa, e ora si sta pensando al disco nuovo.

Però io sono preoccupato. Siccome la loro è una musica abbastanza orecchiabile, non vorrei che dal metal melodico finora espresso, mi andassero a suonare AoR, abbandonando il lato più metallico. E poi come ti trovi in una band dal minor tasso virtuosistico?

Adesso mi trovo bene perché comunque se ascolti con attenzione, il basso è dominante. A proposito di questo ti dico che quando iniziai a suonare con loro e a registrare il basso nel disco, io mi limitavo perché mi dicevo che non era un gruppo di quelli ipertecnici. e loro mi hanno detto: “Che minchia stai facendo? Suona e basta!”. Paradossalmente io mi sono contenuto e loro mi hanno spinto: “Devi suonare come sai suonare”, e quindi in realtà mi diverto tanto a suonare con loro.

Il prossimo disco dei Metatrone avrà un cantante diverso. Dovrà sostituire uno che aveva voce eccezionale.

Si. Giovanni è fuori listino; se n’è andato e adesso c’è Daniele Barbagallo che è un cantante completamente diverso. Siamo fermi da un po’ di tempo perché dobbiamo stravolgere tutto. Il ragazzo è altrettanto bravo, ma ha una estensione vocale completamente differente. Deve essere apprezzato sotto altri punti di vista, è inutile fare paragoni. E’ Bon Scott con Brian Jonhson, ma Brian è stata la voce degli Ac/dc, noi speriamo che sarà così anche coi Metatrone.

Come tutti, da ragazzi abbiamo avuto le nostre pietre miliari. Per te, quali sono i gruppi ed i dischi fondamentali?

Probabilmente ti stupirò! Io adoro in assoluto ‘Reign in Blood’ degli Slayer [si, mi ha stupito! n.d.r.]; è un disco che solo a vederlo mi commuovo. Poi Mr. Big e i Fates Warning. E gli ultimi dischi dei Fates sono andati migliorando; il loro mio preferito è ‘Inside Out’ [settimo album del 1994 n.d.r.], disco di passaggio dalla prima alla seconda fase. Loro sono uno dei pochi gruppi che, al contrario degli altri, partendo alla grande, nel tempo vanno a decadere, sono migliorati. A sedici anni circa ho cominciato a sentire il metal, prima ascoltavo i Genesis, i Level 42, e altre cose comunque cose non troppo commerciali. Ho scoperto l’heavy metal con i Deep Purple, gli Iron, e proprio in quel periodo ho scoperto anche gli Slayer. Mi ricordo che la mattina andavo a scuola con ‘Angel of Death’ in cuffia.

Adesso ci sono dei gruppi che specificatamente ti sembrano di livello?

Ce ne sono tanti validi. Tutti per motivi diversi. Ci sono gruppi che apprezzo tantissimo più per le qualità che per le canzoni, tipo i Protest Of The Hero perché lì c’è di tutto. Il cantante fa quello che vuole, incredibile ‘sto personaggio. Sono musicisti estremamente preparati, e riescono a suonare un delirio seguendo una logica tutta loro, ma che c’è. E mi piacciono i Dragon Force perché sono senza pietà, un abominio proprio [ride n.d.r.], positivo, ma un abominio, io rimango sempre; spirito metal sia come immagine che come velocità di esecuzione, li adoro!

Per il prossimo disco? Un’altra raccolta di pezzi da libri?

No. Sono tutti brani inediti. Devo trovare un attimo per metterli su Cubase. Sarà un po’ come ‘It’s Important’, un disco duro come quello. Con anche citazioni storiche.

Tutti voi artisti scrivete e pubblicate lavori sempre più belli e ricchi di ispirazione. Ma in un periodo in cui non si vendono più dischi e non guadagnate più niente con essi, che li fate a fare?

Per insultare le persone dando il titolo: ‘Basstardy’. A parte gli scherzi, oggi pensare di fare un disco per fare i soldi è proprio da pazzi. E’ più una cosa personale, nient’altro. Considerando il mio primo disco, alcune copie ancora dieci anni fa si vendevano. Di questo qua sono uscite soltanto cento copie, edizione limitata. tutte le altre in digitale. Quando uscì ‘It’s Important’ c’erano ragazzi che mi mandavano le mail: “Ah, ho scaricato il tuo disco. Complimenti!”. Minchia! Ma ormai è talmente comune la cosa; manco lo stai dicendo ad un amico. A me lo stai dicendo! Ma bastardo[ride n.d.r.]! I mie allievi, quando fanno i dischi, me lo regalano; io in realtà glielo compro. Oggi, l’unico modo per supportare un artista è comprargli il disco e andare ai concerti. Come una volta solo così puoi dimostrare di voler supportare l’artista sennò non ha senso. C’è Spotify, c’è di tutto, ma non ha senso.

Non credo che la crisi della musica venduta sia legata solo alla facilità di scaricare. La gente anche ai concerti era diminuita ben prima del covid. E’ qualcosa di diverso secondo me, che va oltre il fatto tecnico della facilità d’acquisizione. Come la vedi?

Secondo me si sta proprio perdendo la cultura della musica.  E quindi anche la cultura dell’andare ai concerti. Ormai i ragazzi stanno su internet per qualsiasi cosa. Oggi si gioca online, quindi non c’è quella cosa di giocare assieme, l’aggregazione o il condividere. Non c’è “condividere”, c’è “Share” che è tutt’altra cosa. Inoltre c’è You Tube, e in merito a questo ricordo che una volta chiesi ad un mio allievo: “Perché ti guardi il video su You Tube quando puoi andare ad un concerto gratis?”, e lui rispose: “Ma su You Tube si sente meglio!” [smorfia dubbiosa n.d.r.]. Ma non è quello il concetto del live, e purtroppo quando hai queste risposte tu cosa puoi fare? Prima qui in Sicilia, quando c’era un evento live, era una festa, adesso è del tutto inutile. Lo vedi anche nei concerti grossi, già da prima del lockdown i tour grossi li facevano solo quelli grossi, e basta! Prima ancora il gruppetto aveva più possibilità di fare una tourneè e di essere considerato. Cosa che adesso non c’è più, ma da almeno dieci anni. Insomma, noi musicisti lo facciamo solo per noi stessi.

L’espressività di Fiorenza possiede una comunicazione aumentativa con la gestualità manuale, che rende l’idea del concetto raccontato, meglio che a parole. Naturalmente voi lettori non potete vederlo, ma sappiate che prima di dire la frase io a volte già capivo cosa volesse dirmi. Vi dico: ascoltate l’album perché merita! E ragazzi, una frase come “Crei un brano senza fare nulla”, lo può dire solo uno bravissimo a cui le cose vengono facili perché “gli fumano”!

Intervista  a cura di Roberto Sky Latini