Humator

Curse of the Pharaoh

Gli italico/teutonici foschi distruttori sono al loro secondo full-length dal 2009, e dopo un’attesa così lunga è tornata una band più selvaggia che mai. Essere selvaggi però non significa andare all’assalto come bruti disordinati, anzi, qui abbiamo soldati ben organizzati, che utilizzano intelligenza gestionale dell’armamentario strumentale.

Musica insomma bene intellegibile, ma dura, durissima. Un Death metal che spacca e colpisce infiammando l’animo. Disco per chi non fa compromessi e album che mantiene una coerentissima direzione stilistica.

Fumosa e ardente è la scura colata lavica di ‘ANACHRONISM’, ma ancora più fiammante e corrosiva  è la impietosa ‘DJED’, variegata e ricca di pathos malevolo. ‘INTO THE CRYPT’, nella sua lenta avanzata è però piuttosto diversificata con inserti che ne ampliano il songwriting. In un complesso dirompente qual è questo disco, ecco un brano acustico come ‘Nynu’, posto proprio a metà della track-list e ci sta benissimo; non serve per calmare le orecchie quanto per descrivere un momento di solitudine e malinconia tra le vicende metallicamente annichilenti. Il rifframa frizzante di ‘APEP’ è un attacco violento che non dà scampo, come un muro di mitragliamento che devasta evitando di prendere prigionieri; la sezione rallentata non fa che raccontare le rovine create da tale battaglia. La parte thrasheggiante riffica veloce della title-track ‘CURSE OF THE PHARAOH’ è un elemento sopra le righe che si lega bene con la parte che diminuisce la velocizzazione. I brani minori, seppur non filler, ci sono, ma nessun giro a vuoto. Comunque nella gran parte delle tracce si combatte una lotta di minaccia e furore che funziona benissimo, espressa con grande ispirazione.

Musica che sembra uscire dagli anfratti più maligni della terra grumosa. Ma se il songwriting è corposamente compatto, gli assoli hanno invece una più luminosa essenza, puliti ed esteticamente pregnanti, peccato per la loro brevità. Il piacere che dona la dinamicità delle song non si perde nemmeno nei pezzi più doom, i quali non sono mai piatte volute di suoni, impreziositi come sono da variazioni sul tema ed inserti gustosi. Il Growl non schiarisce mai la sua sporca attitudine ed è gestito benissimo dentro il songwriting possedendo un suono bello espressivo, anche doppiato varie volte  da uno screamo di fondo che lo addensa valorialmente. Nella ideazione compositiva si passa da soluzioni introspettive, piene di emozionale incombenza, a frantumazioni da carrarmato, aggressive e schiaccianti, che sono preponderanti. E’ sound per gli intransigenti, ma anche per chi ama il metal estremo fatto bene, tradizionale e moderno al tempo stesso. Non c’è caos né indecisione, anzi i suoni sono ben tecnici senza esserlo in senso iper, e quindi vige una raffinatezza di fondo che però non contrasta con l’euforica pura cattiveria. Una grinta che promana spesso inanellando episodi uno più assassino dell’altro, eppure senza annoiare dato che essi sono ben caratterizzati e riconoscibili; insomma una forza che viene suonata evitando di perdersi nella sola foga. La valenza di una tale impostazione è una chiara forma da pugno in faccia, con effetto a presa sicura.

Roberto Sky Latini

Time To Kill records
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Intro
Anachronism
Djed
Into the Crypt
Sadness
Nynu
Apep
Corporal Mortification
Born to be sacrified
Curse of the Pharaoh
Arisen from the Ashes

Michael Bach – vocals
Raimondo Caltagirone – guitar
Antonino Durante – guitar
Simon Moch – bass
Piero Geloso – drums