Grand Magus
Sunraven
Questi ormai maturi rocker svedesi sembrano ogni volta decisi a divertirsi, ma sotto quest’aria di leggerezza lineare, compositivamente mai troppo elaborata, vive una sorniona attitudine a costruire pezzi ben congegnati e rocciosi. Il divertimento qui non manca di seriosa qualità, e la voglia di essere dei puri si associa ad una capacità di non farsi distanti, che i pezzi scorrono con grande fruibilità, pur nella distanza siderale che si ha dall’essere commerciali. Se il passato aveva avuto alcune polverosità Stoner, già dall’inizio si poteva sentire un respiro metallaro tradizionale che oggi si percepisce più nettamente, e ormai da vari dischi. Dentro c’è la capacità di unire un certo afflato hard rock con la ruvidezza del metallo ottantiano. Si tratta proprio di quel metal che si ascoltava nel passaggio a cavallo dei due decenni hard & heavy.
Il senso quadrato della scrittura emerge sin dall’inizio con una corposa e seducente “SKYBOUND” che emana una antica atmosfera heavy degli anni ottanta, che tra la N.W.O.B.H.M. e un feeling di fine anni settanta, assomiglia allo stile dei Samson seconda parte, quelli dell’82-’84 con Nicky Moore al microfono, del resto la calda voce assomiglia parecchio a quella di Christoffersson; ma anche lo stile generale della band ed il genere sono quelli. L’epicità porta il gruppo a costeggiare rive Manowariane con la massiccia ‘THE WHEEL OF PAIN’ che sfrutta il drumming classico di quel combo americano e con il ritmo a cavalcata della title-track ‘SUNRAVEN’, anche se il senso Samsoniano di base rimane. Il feeling terroso in altri episodi può essere accostato alla voluttà fumosa e rockettara di Zakk Wylde dei Black Label Society, per esempio nella più virtuosa ‘WINTER STORMS’, ma anche nell’uso del basso e dei riff chitarristici alla Black Sabbath di ‘BLACK LAKE’, che permea il tessuto sonoro di acre acidità.
Il pezzo ‘HOUR OF THE WOLF’, mescola una “argirata” riffica di ‘Running Wild’ dei Judas con l’incedere dei Black Sabbath di Ronnie James Dio grazie al liquido scorrere del rifframa che diventa veloce e teso. Ottimo il finale di ‘THE END BELONGS TO YOU’ che per metà appare un inno, quando nel virile ritornello si impatta sull’ascoltatore con una frase forte e decisa, adattissimo da far cantare in concerto, e ci si mette anche un ritmo simile a quello di ‘Denim and Leather’ dei Saxon ad aumentare questa sensazione anthemica; è l’unica traccia nella quale l’assolo sembra necessitare di uno sviluppo ulteriore. Filler inesistenti, e anzi va detto che ben sette pezzi su nove funzionano con perfetta efficacia. ‘Grendel’ forse non è bello come gli altri, ma possiede una buonissimo grado di godibilità (anche questo brano vive di una essenza Blacksabbathiana alla Dio) ed ‘Heorot’, nel suo “folkeggiare”, ha grinta e tono e inoltre presenta una delle migliori parti soliste.
La band suona in maniera essenziale in quanto non vi sono aggiunte inutili rimanendo stretti al minimo che serve, nella semplicità. Le linee vocali non sono virtuosismi canori ma hanno un gradiente espressivo pieno. Gli assoli sono come piccole perle luminose affioranti dalla foschia brumosa dei riff corpulenti, mai troppo prolungati e nemmeno mai troppo stringati. Il tasso di epicità è denso, non fa diventare mai kitsch la loro espressività, neanche quando si affiliano ai Manowar, e non cadono nella infantilità di certi gruppi epici odierni come i Freedom Call o i Powerwolf, estetica in cui invece sono caduti metaller più blasonati come gli Hammerfall; permane invece una epica adulta e fatta utilizzando un passo heavy di classe per quanto non manchi l’essenza del divertimento.
E’ un lavoro molto persuasivo, che avvolge e che si imprime facilmente nelle orecchie, ma nello stesso tempo ha quell’accento rude e un po’ bluesato che li fa essere nel novero dei più amabili da chi predilige il rock verace e primitivo. Si percepisce che una polvere Stoner è spruzzata nella loro ricetta, ma è quell’ingrediente che qui è in linea con la dura verve generata, quella appunto di gruppi meno coriacei, ma comunque irriducibili, come lo erano i Samson. Non c’è la violenza dei Judas o l’irruenza dei Saxon, ma è pure una bella vena di metallo purista. Sono arrivati alla decima opera della loro carriera che inizia discograficamente nel 2001; rispetto al precedente ‘Wolf God (2019), che era molto debole, questo è nettamente di un altro livello, anche se lo stile è assolutamente lo stesso; non solo è godibile, ma è anche intrigante, col guizzo artistico necessario ad andare oltre il semplice effluvio di stile, quindi il risultato possiede anima e contenuto.
Roberto Sky Latini