Flotsam And Jetsam
I Am the Weapon
Negli anni questa band americana ha mantenuto un livello artistico elevato, senza mai abbandonare una enfasi emozionale che va ben oltre la semplice cattiveria, che pure è presente nei suoni e nell’attitudine. In particolare l’ugola del cantante riesce ad essere densa e significativa in modo tale da battere moltissimi altri cantanti del thrash per pathos ed epicità. Potremmo considerarlo il Ronnie James Dio di questo genere musicale. Ma non solo, il gruppo mantiene sempre inalterata la propria ispirazione artistica, senza sfigurare rispetto a Testament ed Exodus, raggiungendo più volte l’alta bellezza metallica di Megadeth ed Anthrax. Insomma con loro non si può parlare di gruppo minore grazie alla vena compositiva riccamente espressiva e personalissima, finora sottovalutata, che non merita le varie opinioni contro.
Di filler neanche a parlarne e anzi moltissimi i pezzi succulenti, almeno nove su undici, ma gli altri due, la truce ‘Gates of Hell’ e l’introspettiva ‘Burned my Bridges’, non sono certo poca roba. Insomma tutti i momenti sono riusciti sia per scrittura, sia per arrangiamenti. Si tratta di pezzi d’artiglieria che sputano fuoco incendiario. Questo si verifica già stupendamente con l’apripista di ‘A NEW KIND OF HERO’ la cui ritmica vive di elettrica lucidità, tra batteria e riffing che ergono un muro compatto. Fa lo stesso la veloce ‘COLD STEEL LIGHTS’ nonostante il brevissimo ponte soft centrale, fornito inoltre di accattivante e suadente ritornello e di una chitarra shredding. Piuttosto diretta e semplice l’aggressiva title-track ‘I AM THE WEAPON’, che è thrash, ma quel thrash che è quello il quale ha ispirato le band heavy quando hanno usato tale approccio, tipo i Judas Priest dell’ultimo loro album ‘Invincible Shield’.
Altra bocca da fuoco con un riffing frizzante è la ‘RUNNING THROUGH THE FIRE’, elegante nel suo momento anche qui morbido, ma che nell’insieme avvolge con impertinenza. Un bel mordente emette ‘THE HEAD OF THE SAKE’ grazie alla sua possanza, anche se appare meno violento pur rimanendo incombente, dove pure la sezione dell’assolo partecipa all’atmosfera con tesa esaltazione. Con tracce più atmosferiche come la parzialmente scura ‘KINGS OF THE UNDERWORLD’ si alza il tasso di tensione emotiva ed essa riesce con la maturità di chi sa come si scrive una song di questo tipo. Divertente e ganzo il ritmo blues-rock dei riff di chitarra di ‘BENEATH THE SHADOW’, trasformato tecnicamente in stilistica Thrash, con affinata abilità. L’episodio meno thrash è ‘PRIMAL’, avendo un carattere più tipicamente heavy, che anche Accept, Judas o Primal Fear potrebbero aver pensato, ma risulta comunque di bellissima entità, senza smorzare l’essenza del disco. A finire l’ascolto la regale ‘BLACK WINGS’, un caldo brano maestoso che si apre ad una sonorità più ampia e raffinata, senza abbandonare il pesante filo metal fin qui intessuto.
Va risottolineata la capacità dura e al tempo stesso modulata della voce, grandissimo valore aggiunto, che è in grado di colorare di molte sfumature le linee vocali sempre azzeccate. In certi frangenti la tonicità che emerge dalle sue corde vocali è più cattiva di certo growling che si sente in giro, grazie al carattere arcigno, impostato su una virile liricità, in questo simile ad Halford sebbene la tonalità assomigli più a quella di Ronnie Romero dei Lords Of Black, quando quest’ultimo s’incattivisce. Essere anche una voce minimamente orecchiabile non fa mai uscire tale musica dall’ambito thrash e anzi il cantato così fatto ne completa lo spirito. Il drumming incisivo sostiene con cura tecnica l’anima di ogni canzone; è gustosissimo il suo incedere super-dinamico che non perde mai l’accento arrembante. La chitarra solista non costruisce lunghe trame, ma è perfettamente inserita nel contesto con semplicità ideativa che non presenta difetti.
I Flotsam in passato hanno scritto album meno thrash di questo, ma sempre costruendo una impalcatura valoriale indiscutibile. Stavolta la scelta è stata virata verso una dimensione d’assalto, utilizzando la solita verve molto personale e riconoscibile. Essi non sono mai derivativi edificando, all’interno della propria esplicita forma creativa, ogni volta autodeterminata, un insieme di input che li rende unici. Certo non sono i thrasher rozzi e zozzoni di certe correnti, ma come i Megadeth tendono alla pulizia ed alla classe, e non si accontentano solo di pestare duro, sono insomma fuori dal contesto dell’assolutamente brutto e cattivo, preferendo come virulenza l’elettricità e non la ruvidezza. Sono cattivi con metodo. Finora uno dei migliori dieci album dell’anno, in linea caratterialmente con quello del 2021 (‘Blood in the Water’), ma in versione migliorata. Al quindicesimo lavoro dal 1986 i vecchi eroi dimostrano ancora che la gioventù degli altri non li ha superati.
Roberto Sky Latini