Satantango

Satantango

Ci sono dischi che non descrivono un luogo: lo incarnano. “Satantango”, l’album d’esordio dell’omonimo duo formato da Valentina Ottoboni e Gianmarco Soldi, è uno di quei rari lavori che portano con sé l’odore umido della terra, il bianco umido della nebbia, il silenzio teso di periferie che sembrano fuori dal tempo. Anticipato dai singoli “9.11” e “Permafrost”, questo debutto è un viaggio in una provincia sospesa tra romanticismo decadente e disillusione feroce, un ritratto sonoro che restituisce il battito lento e irregolare della pianura ai confini di Cremona, dove il duo è cresciuto e ha scelto di restare.La prima grande forza di “Satantango” è la sua coerenza emotiva: un equilibrio precario e affascinante tra struggimento onirico e impeto travolgente, tra intimità sussurrata e improvvisi muri di suono che ricordano quanto il rumore possa, a volte, accarezzare più della quiete. Gli otto brani del disco si muovono su coordinate che intrecciano pop, dark, alternative e un gusto per la costruzione melodica che tradisce ascolti raffinati e un fitto sistema di riferimenti che non schiaccia mai la personalità del duo, anzi la amplifica.

Satantango” è un album che sembra scritto dentro una “bolla”: non intesa come isolamento sterile, ma come un’ipnosi creativa che trascina l’ascoltatore lontano, in un altrove sospeso tra sogno e memoria. Il sound è avvolgente, stratificato, a tratti volutamente sporco; le parole, sussurrate con delicatezza, si incastrano nella mente al primo ascolto e pulsano di un’ironia amara che non snatura la tensione poetica di fondo. Quella dei Satantango è una scrittura che sa fotografare l’essenziale con un linguaggio immaginifico, visivo, capace di scavare dentro senza mai risultare ermetica.

Il riferimento al film di Béla Tarr, da cui prende il nome la band, non è un vezzo cinefilo. È una dichiarazione poetica. Il villaggio grigio, desolato e fangoso del film sembra rispecchiarsi nei prefabbricati e nelle cascine della provincia cremonese; così come il tempo dilatato e la sensazione di sospensione del film si riflettono nei brani del disco, che avanzano come lunghe panoramiche emotive. Tarr non è però l’unico fantasma cinematografico che attraversa l’opera: echi di Antonioni e Godard emergono nel bianco e nero dell’immaginario visivo, nei titoli che strizzano l’occhio alla storia del cinema e in quel modo che il duo ha di trasformare ogni canzone in una scena, un’inquadratura, un fotogramma in dissolvenza.

La provincia raccontata in “Satantango” è tanto reale quanto simbolica. È una terra isolata, con i cinema chiusi, le biciclette che corrono tra tralicci e argini, le feste notturne che finiscono presto, i treni persi verso un altrove che non arriva mai. È un luogo amato e odiato, casa e prigione, rifugio e ferita. Ma soprattutto è lo specchio perfetto di una generazione illusa e poi abbandonata: quella a cui avevano promesso il mondo e che oggi stringe tra le dita soltanto briciole, cercando di non scomparire in un contesto che corre troppo veloce per chi è cresciuto in spazi lenti, immobili, pieni di fantasmi del passato.

Il realismo del disco è lucidissimo ma mai cinico: c’è sempre una vena poetica, un romanticismo doloroso che lo addolcisce senza smussarne la crudeltà. Frasi come “Tutte le coincidenze noi le abbiamo perse, non resta niente, solo quello che è importante” o “Ti hanno detto è meglio se cominci a correre, l’Italia non perdona” testimoniano questo equilibrio perfetto tra introspezione personale e denuncia generazionale.

Il percorso dell’album è costruito con una cura narrativa considerevole.

Si apre con “9.11”, una data-simbolo che per il duo rappresenta l’inizio della caduta, e si chiude con “Cinema Tognazzi”, un pezzo che suona come i titoli di coda di un film immaginario. In mezzo, sette brani che non sono semplici episodi musicali, ma tappe emotive: “Gioventù, amore e rabbia”, “Outro”,Permafrost”, “Strada Provinciale 6”, “Villa Alluvioni”, “Sigla”. È curioso scoprire che molte idee siano nate camminando nei campi, vicino alla vecchia centrale idroelettrica poi finita sulla copertina del disco; ed è altrettanto significativo sapere che la produzione è totalmente homemade, costruita con un MacBook del 2009 e una scheda audio di fortuna. La scelta di privilegiare le take imperfette ma emotivamente vive rispetto a quelle tecnicamente impeccabili conferisce al disco un respiro umano che lo rende ancora più autentico.

Questa dimensione non è soltanto un tratto produttivo: è una vera poetica. “Satantango” suona proprio come dovrebbe suonare un album nato lontano dai centri, in quelle zone dove tutto sembra succedere a metà ma niente del tutto. È un disco che non ha paura del difetto, che anzi lo trasforma in una cifra stilistica. Le chitarre scavate, le voci velate, le distorsioni morbide e avvolgenti, le batterie che mantengono una presenza discreta ma pulsante: ogni elemento contribuisce a costruire un universo in cui malinconia e desiderio convivono, in cui il passato è un rifugio ma anche un peso, e in cui l’inaspettata delicatezza delle melodie si sposa con l’impatto emotivo dei momenti più densi e rumorosi.

L’effetto complessivo è quello di un’opera che parla di fuga ma resta costantemente ancorata al suolo; un disco che invita a volare, a galleggiare sulle pareti di suono, ma che allo stesso tempo riporta l’ascoltatore a terra, ricordandogli che la realtà non scompare mai del tutto. La tendenza naturale a sognare si unisce alla consapevolezza che ogni sogno ha una crepa, una fragilità, un ritorno brusco alla quotidianitàCon “Satantango”, Valentina Ottoboni e Gianmarco Soldi firmano un debutto sorprendentemente maturo e curato in ogni dettaglio, ma mai ingabbiato nella ricerca della perfezione. È un album che resta sulla pelle, che profuma di pianura d’inverno, che parla a chi è cresciuto tra nebbie e silenzi, ma anche a chiunque abbia conosciuto l’attesa, il disincanto, la malinconia che diventa casa. Un disco che racconta una storia intima, soggettiva, eppure universale.

E, soprattutto, un’opera che non ha paura di guardare la realtà in faccia ,anche quando fa male, anche quando è grigia come una mattina di novembre, e di trasformarla in musica che sa essere dura e fragile, oscura e luminosa, disillusa e romantica, proprio come la provincia che l’ha generata.
“Satantango” non è solo un disco d’esordio: è un manifesto di identità, un atto d’amore e resistenza nei confronti di un mondo che ancora fatica a riconoscere la poesia nascosta nelle periferie. E che, grazie a questo duo, oggi risuona un po’ più forte.

Anna Cimenti

TRACKLIST

 9.11
Gioventù, amore e rabbia
Outro
Permafrost
Strada Provinciale 6
Villa Alluvioni
Sigla
Cinema Tognazzi

LINEUP:

Valentina Ottoboni – voce
Gianmarco Soldi – tutto il resto