Primal Fear
Domination
I metallers tedeschi continuano per la loro strada senza lasciar passare troppo tempo tra un disco e l’altro, e fedeli a se stessi eccoli nel 2025 con il quindicesimo full-lenght, ancora una volta esternando tonicità e nettezza. La struttura riffica è come sempre teutonicamente quadrata, ma stavolta i ritornelli tendono ad amplificare ulteriormente il senso melodico già presente nel loro trademark. Questa caratteristica, lontana dal rovinare le canzoni, determina al contrario il loro valore perché la band è bravissima a trovare refrain personali e pieni di feeling. La loro forma canzone è generalmente lineare e diretta così da donare un appeal che afferra in maniera istantanea, ma non certo come fanno i superficiali tormentoni estivi, infatti si conserva pregnante la potenza del metal più tradizionale.
La cadenzata ‘THE HUNTER’ è un inizio accattivante, una song a presa rapida stile anni ottanta che si infila subito nella testa. Non mancano le solite scorribande Power come nella freschissima ‘FAR AWAY’ che fluisce compatta verso un ritornello solare ed arioso, in contrapposizione alle strofe scolpite nella roccia, e qui l’ugola colpisce per il suo alto livello di virtuosismo. Il pezzo ballabile in senso rock, con anche guitaring annesso, è ‘I AM THE PRIMAL FEAR’ che può ricordare tanto i Judas quanto i Saxon. Due tracce fanno uso di cattiveria. La prima è un altro Power attack ‘HEROES AND GODS’ che prende a prestito un pezzo del riffing dei Judas (‘Nightcrawler’) e poi si epicizza col ritornello rallentato che sarebbe andato bene anche nei Frozen Crown, band di provenienza della chitarrista, parte solista compresa; l’altra è una mastodontica furia thrash, infatti ‘MARCH BOY MARCH’ è impattante. Entrambe utilizzano la voce acuta alla Halford come avviene in Painkiller sebbene non in tutta la lunghezza delle composizioni, soprattutto ad essere feroce è ‘March…’, la quale colpisce con potentissima aggressione verbale dalla sicura efficacia, magari troppo smorzata dal ritornello che, per quanto qualitativo, non rende merito al carattere del brano che avrebbe meglio funzionato con una staffilata altrettanto tagliente. In particolare l’assolo di ‘March…’, è davvero fuori luogo nella prima sua parte rispetto allo spirito del brano il quale perde l’occasione di essere valutato con massimo voto, che ci stava bene uno sviluppo ulteriore simile alla velocità della seconda parte, magari in maniera più acida.
Se la mezza sinfonica ‘Eden’ alza il senso maestoso del disco con anche la deliziosa voce femminile della singer svizzera degli Ad Infinitum, la ballata ‘A Tune I won’t forget’ è un piccolo tocco artistico, inizialmente cantanto quasi da crooner in una tonalità introspettiva, per poi sollevarsi in un tonico melodico afflato mischiando la voce di Halford con quella di Kiske, in una mescolanza che diventa per questo magica; tale ibrido appare come una stranezza ma è riuscita appunto in quanto tale, ed è curioso sentirlo eseguire così da Scheepers che di solito canta in modo diverso, ma in questo disco si può affermare che lui sia andato “oltre”.I Judas Priest rimangono il principale aspetto d’ispirazione, ma non ci si aspetterebbe che spesso grazie al cantato limpido e melodico si vada a finire verso gli Helloween, e neanche in modo tanto nascosto, anzi al contrario piuttosto esplicitamente. Proprio il canto in questo disco pare voler mettere in chiaro la grandezza esecutiva del singer che è spesso sottovalutato, ed in effetti solitamente non viene in mente lui quando si parla dei migliori cantanti metal, ma qui invece possiamo stupirci, perché la sua tecnica si coniuga con una espressività ben oltre i “semplici” e formidabili acuti, comunque presenti, e quindi forse ci si sbaglia a non metterlo tra le migliori ugole.
Se in varie occasioni in passato egli ha fatto il verso ad Halford, addirittura ora va ad assomigliare a Kiske. Se vogliamo parlare di un difetto del disco, esso va a identificarsi con gli assoli, nel senso che l’acquisizione della brava italiana Bellazecca non sembra diventare valore aggiunto ai fini chitarristici, e anzi le parti soliste risultano performance più povere che nei dischi precedenti, con inoltre una sensazione che non ci si sia impegnati nella loro espressività. Tutti gli assoli si dividono in gustose parti melodiche a doppia chitarra che fanno parte strutturale del songwriting e funzionano bene, mentre quella esecutiva singola, cioè l’assolo vero e proprio con di solito un’azione shredding, è sempre brevissima e molto semplicistica; più una forma di mestiere che di ispirazione, con sequenze di note scontate. Bellazecca nelle interviste va dicendo che gli assoli da lei suonati hanno il suo imprinting compositivo, ma non c’è personalità, faceva molto meglio nei Frozen Crown. Forse per dare troppo spazio ai ritornelli si è tagliato eccessivamente sugli assoli. Alla fine però le luci sono più delle ombre, molte di più, ed è un vero disco heavy metal, nel cui genere va ricordato che la melodia non è mai stata un optional, anzi è risultata spesso la base per aprire alla variabilità e al genio. E’ bello vedere gruppi che sanno spaziare tra modelli diversi e che sanno toccare corde dall’accentazione colorata.
Il rifframa e molte strofe rimangono arcigni singulti duri e la voglia di pesantezza quindi rimane soddisfatta; se alcuni gruppi diventano col tempo noiosi, i Primal rimangono una bella raffica di fresca bellezza.
Roberto Sky Latini