Old Bridge
Dies Irae
La band fiorentina, nata nel 2012, arriva oggi al secondo full-lenght dopo ben cinque anni dall’esordio discografico del 2020. L’atmosfera ricercata è un tratto distintivo della band che allora poneva il proprio Heavy Metal a beneficio di un songwriting descrittivo che parzialmente ancora permane, ma se in quel caso si toccavano, soprattutto nella chitarra solista, echi anni settanta, stavolta c’è una minore dose di quell’antico suono. Non è comunque un heavy di solo impatto volendo conservare un forte appeal emotivamente evocativo. La visione moderna che già c’era, qui è incrementata.Uno degli episodi più magici è ‘CITY OF TEARS’ che preferisce l’introspezione all’impatto, per quanto la pesantezza della ritmica non sia certo rarefatta; la voce calda viene avvolta da un riffing denso e scuro su di un ritmo cadenzato ed il pezzo fluisce spontaneo regalando un retrogusto di raffinata emotività che sfocia nel finale in una parte solista ben più dura e compatta. ‘THE DARK CATHEDRAL’ è un altro momento particolare in quanto la linea melodica non è certo canonica; essa risulta ariosa e si posa su una chitarra sferzante i cui riff sembrano provenire epici dai riff ottantiani di Tony Iommi, arrivando a creare una suggestione che bilancia fra loro aperture morbide e respiri metallici. L’inizio hard-rock di ‘BEAUTIFUL LOVER’ si trasforma presto in un avanzamento irriducibilmente heavy in middle-time, ma qui è soprattutto, e di nuovo, il cantato a farsi molto personale e curiosamente eclettico, dove le stofe sono più interessanti del ritornello.
Le melodie sono quasi sempre caratterizzazioni molto personali e a tesserne una di maggior enfasi ci pensa la title-track ‘DIES IRAE’ che non cerca virtuosismi ma va incontro ad un’aura cerimonialistica che espliciti una densa magniloquenza quasi sacra, mentre la struttura strumentalmente mantiene una forma rocciosa ed elettrica. Il goticismo della semi-ballata ‘NEL MIO SILENZIO’ tocca note prog sebbene appena accennate, ma la chitarra ritmica vuole anche portare l’ascoltatore in ambiti che giocano con un doom che si inserisce nella vena che del goticismo vive la parte più ruvida del metal e non quella pop-rock. ‘FALLEN ANGELS’ testimonia che la verve modernista è netta in questo gruppo, il rifframa infatti si staglia piuttosto tagliente, e poi ancora una volta si evince come le linee melodiche che vengono create cerchino sempre di evitare i clichè; se vogliamo fare un critica, qui pare mancare un assolo che il brano richiede con vigore, così infatti sembra che ci sia una assenza da riempire per dare una evoluzione alla traccia, dato che essa ha del potenziale per svilupparsi ulteriormente.
Bravura nel gestire il lato folk-metal in ‘PRAYER FOR MY DEMONS’ che con eleganza della voce e degli arrangiamenti non cade in certi fac-simili troppo abusati, riuscendo invece ad evocare un bel paesaggio sonoro dalla sicura malìa, oltre al fatto che il pathos della parte solista è una delle cose più belle di questo lavoro. L’unico pezzo Power è ‘INTO YOUR FACE’ che funziona tonicamente al modo dell’heavy italico ottantiano tradizionale, ricordando la frenesia giovanile di quel periodo, mentre la voce ci ricorda l’attitudine irriverente di De Bono o di De Palma dei White Skull, anche se forse il ritornello non è sufficientemente impattante come dovrebbe.Le canzoni, pur non lineari e non del tutto dirette, sono comunque ben fruibili e si pregiano di non assomigliarsi affatto fra loro, avendo ognuna il proprio carattere distintivo, cosa che si evidenziava anche nel loro primo disco.
Le ingenuità da primo album nel disco precedente non c’erano, ma in quest’altro invece ci sono, con piccoli passaggi non perfettamente oliati, ma sono difetti che si trovano solo se si ascolta con attenzione. L’ugola della singer ancora una volta dimostra di passare a diversi differenti tipi di interpretazione passando da pulizie melodiche a cattiveria più roca e talvolta inserendo anche toni vicini all’idea della sacerdotessa doom, sebbene mai troppo spinti in quel senso. Soprattutto non ci si accontenta mai di qualcosa meno che ficcante, sia che siano le linee cantate, sia che si tratti di fill riffici o di evoluzioni soliste.
E del resto la chitarra è sia potente che intelligente, dando prova ancora una volta di una maturità superiore. Ogni cosa poi è sorretta da una base ritmica spessorata e poderosa costantemente efficace. Pur trovando elementi alla Maiden o di altro afflato storico, la band è piuttosto originale e l’ascolto trova tante peculiarità su cui soffermarsi con piacere, in effetti ciò che hanno preso da altri l’hanno rielaborato per diversificarsi alla propria maniera e quindi non si trova mai qualcosa che possa essere percepita come derivativa. Del resto il disco è bello tutto, visto che di filler neanche l’ombra, e vive di reale ispirazione artistica; cinque anni insomma non hanno fatto perdere l’appeal. L’essenza forse è meno teatrale rispetto alla precedente prova pur ancora tenendola in sé, ed è comunque più heavy, il che non è certo un male. Questi artisti indubbiamente sanno come perseguire i propri obbiettivi e sanno raccontare, con i suoni ben gestiti, le loro storie.
Roberto Sky Latini