Saor
Amidst The Ruins
Il metal, in particolar modo quello estremo, da un po’ di anni, anzi direi da più di un ventennio, sta prendendo strade che intersecano positivamente altri generi e soprattutto altri lidi e di esempi se ne potrebbero fare davvero tanti, ma in sede di recensione mi preme porre l’attenzione sullo sguardo che spesso le band di musica estrema, con particolare attenzione al black metal, rivolgono alla musica folkloristica delle terre natie, dalla quale prendono ben più di uno spunto e nell’ incrocio di generi si va ben oltre il mero riportare in ambito metal partiture appartenenti alla tradizione, spesso e volentieri si sfocia in una vera e propria fusione e in alcuni momenti, quando non direttamente in album interi, il metal è suddito della musica folk: sembra quasi si voglia dare vita ad una sorta di world music metallizzata. Ovviamente questo giochino non sempre riesce e sono svariate le band che si perdono nei meandri di questa interconnessione dando vita ad opere inconcludenti; sicuramente non è il caso degli Scozzesi Saor che tornano ad affacciarsi sul mercato con Amidst The Ruins, sesta fatica discografica uscita per Season Of Mist il 7 febbraio.Il disco è fieramente intriso di tutto il retaggio musicale della terra di origine del buon Marshall, che si presenta non solo come unico attore di tutta la rappresentazione, aiutato solo dietro le pelli da Carlos Vivas, ma come costruttore di rappresentazioni vive, attraverso cinque arazzi di note, dei paesaggi scozzesi, dove dolci colline lasciano il passo a distese pianeggianti su cui si possono intravedere gli antichi castelli dei nobili e le costruzioni del popolino e le case rurali.
La mente riesce a proiettare i suoi costrutti grafici davanti alle pupille, le quali attraverso le note riescono a dare forma alle descrizioni musicali e liriche di Andy Marshall.Amidst The Ruins si presenta con cinque lunghi brano densi di rimandi all’ antica Caledonia ed è, fino ad ora, il disco che si spinge più un là nel cercare la preponderanza della tradizione musicale rispetto alla componente metal, che pur presente e ben concepita, sembra cedere il passo non solo al genere stesso di riferimento, ma proprio alla componente folkloristica di cui l’album è pieno come mai prima, tanto che il Nostro ha assoldato una serie di professionisti che realizzassero, su suo dettame, gli arrangiamenti per tutti gli strumenti tipici della musica scozzese, la quale, per lo meno per ciò che giunge alle mie orecchie, prende il sopravvento sulla parte metal, andando così a realizzare una fusione ancora più interessante, soprattutto perché questa voglia di addentrarsi ancora di più nei territori della tradizione, ha fatto subire una lieve virata anche all’ approccio compositivo più legato al mondo estremo.
Il Black metal non è totalmente sparito così come non lo è la sua componente atmosferica, ma ha portato alla luce la sua parte più gotica, la sua parte più romantica e sognante, lasciando in una magica sospensione la parte più brutale, la quale nonostante si affacci di tanto in tanto, viene sempre seguita e dolcemente accompagnata dal costrutto folk che ne smorza piacevolmente e in maniera profonda le asperità: basta per questo ascoltare con estrema attenzione la traccia di apertura, che poi è anche la titletrack, per rendersi conto del lavoro compositivo che è stato fatto per la realizzazione di questo platter, perché davvero le due anime viaggiano all’ unisono e si compenetrano alla perfezione andando a dare un guizzo in più a tutte le composizioni, che, nonostante la lunghezza, scorrono via che è un piacere, disegnando incanti e facendo sì che riecheggi nelle nostre orecchie, il vento umido e acre che sferza le verdi pianure scozzesi.
Personalmente avrei preferito una maggiore spinta sull’anima più vicina all’antica Scozia, non dico che si sarebbe dovuto realizzare un disco come Kveldssanger degli Ulver, però sarebbe stato interessante osservare come lo sviluppo tradizionale si sarebbe posto in contraltare con il metal estremo: in ogni caso parliamo di una mia proiezione e non di quella di Andy Marshall, il quale è riuscito a mettere a segno un altro gran bel colpo con la sua creatura. Amidst The Ruins è un disco molto ben congeniato sotto tutti i punti di vista, con un artwork veramente degno delle storie che l’album narra e una produzione fortemente azzeccata per il tutto: nulla da dire sul lavoro svolto, se non ciò che ho già asserito in merito ad una maggiore preferenza di rendere più forte ed evidente il legame con le proprie radici, perché siamo dinnanzi ad una release di gran classe che saprà toccare l’anima, il cervello e lo sguardo di chi saprà approcciarsi ad un mondo in cui il metal è “costretto” a vivere alla pari con l’elemento folk.
Daniele “Darklordfilthy” Valeri