Swarf Damage
Swarf Damage
Nascono gruppi tradizionalisti a frotte, a volte con grandi brani, altre volte troppo copie, altre volte invece, come in questo caso, con una forza compositiva non originale che riesce comunque a inserire anche una certa varietà espressiva non troppo banale, pur dentro una scelta estetica molto poco originale. Si gioca tutto sull’ugola cavernosa e l’immediatezza concettuale.
Thrash che non lesina di sommare al proprio sound anche altri generi violenti come l’hardcore ed il punk, ma ad un certo punto arriva anche la scura ispirazione slayeriana (nel brano ‘Sin Eater’). Il debutto di questa band britannica (precisamente Isola di Man) non cambia nulla di ciò che già si conosce ma è qualcosa che dà gusto ascoltare. In effetti è perfetta per i nostalgici del duro e puro; i musicisti qui non si fanno pregare, pestano quanto più possibile.La partenza furente è il giusto biglietto da visita per tale full-lenght. L’apripista ‘KILL 2 SURVIVE’ è infatti un perfetto pezzo d’attacco iniziale, compatto, quadrato alla teutonica e con un assolo invece più arioso che amplia il quadro altrimenti ossessivo della composizione, riuscendo in una bella mazzata soddisfacente.
Molto dinamica la muraglia potente di ‘FOUR MINUTE WARNING’, dal vocione cupo e dalla riffica a sega circolare che impatta distruttiva; e la parte solista è piuttosto ricca, ma stranamente anche raffinata, così da farsi importante come la parte cantata. L’ottima ‘DOOM OR BE DOOMED’ s’abbatte sull’ascoltatore con una verve meno statica, con energetica scattosità che mette gli accenti dove più fanno effetto e con un groove superaccattivante. Abbiamo un bel punk tirato con la tradizionalista ‘Decayed’ che ripercorre la verve barricadiera delle cose antiche anche se il fluido assolo è estremamente elegante e contrasta con l’essenza del punk d’annata. La basilarità di certi riff è così esplicita da rendere il gruppo supercanonico; e così viene da ridere per l’ingenuità del rifframa sentito centinaia di volte dentro una scheggia come ‘Batten down the Hatches’, che per quanto sia divertente ascoltarla, non è che un filler.
Questa musica è dura e pesante ma non è metallo levigato quanto roccia ruvida, granulosa, se non fosse che la classe degli assoli stempera la turgida rabbia senza però mancare di un alto tasso di elettricità. Quindi sì, c’è il martello che batte e la lama che taglia, più un mantice vocale che sfrega sulla grattugia, ma si intravede anche un potenziale più ampio che sembra lasciare spiragli evolutivi per il futuro, è solo una percezione ma gli indizi ci sono, senza lasciarci trapelare se sarebbe in meglio o in peggio. Per ora questa è la loro maniera di concepire un prodotto. Drumming pressante e chitarre roventi; il cantante ringhia eppure canta, sì, è bravo e sa gestire benissimo la sua rozzezza. E’ un disco che vuole far male, fatto per chi non vuole tante elucubrazioni mentali. Fatto per chi ama scatenarsi e sudare come tori a testa bassa, facendo un headbanging irrefrenabile o un pogo saettante. Perciò un lavoro diretto, semplice ma non scarso, una certa qualità emerge sebbene l’insieme assomigli a tanta roba già esistente. Alla fine è caratterialmente eccitante, ma naturalmente è una realtà minore, non assimilabile per valore al meglio del thrash. Di certo dal vivo andranno alla grande, ma si può scapocciare anche ascoltandoli in questa opera da studio.
Roberto Sky Latini