Maneskin
Rush!
Recensione a cura di Roberto sky Latini
Ed ecco uscito il tanto atteso nuovo album (il terzo) del gruppo italiano che ha fatto un mega-successo iperdiscusso e atteso passionalmente sia dai propri fan che dai suoi detrattori haters; passione quindi tanto d’amore quanto d’odio. Fu o sarà tutta gloria? Non lo sappiamo e nemmeno ce ne dovrebbe importare più di tanto; dovremmo semplicemente valutare le canzoni di per se stesse. Al di là dei gusti, queste canzoni hanno valore? Il primo full-lenght non può essere considerato positivo, tenendo presente una certa forma di scontata espressività, anche se un brano sentito come ‘Torna a Casa’ merita un voto piuttosto alto; l’insieme di quella pubblicazione però si becca un voto insufficiente. Invece il secondo album possiede un feeling del tutto positivo, anche considerando i quattro filler ivi contenuti; del resto, c’è una ottima ‘Vent’anni’ e soprattutto una stupenda ‘Coraline’, che è una delle migliori song del rock italiano. Il nuovo capitolo presenta una netta continuità con la musica precedentemente ideata e vive di luci e ombre, così come vivevano in chiaroscuro i loro precedenti lavori. Tutti i pezzi sono scritti dai Maneskin, ma insieme sempre ad altri, come se non bastasse un solo collaboratore.
La partenza accende bene l’ascolto con una funkeggiante ‘OWN MY MIND’ che però non sembra sfruttata bene stoppando troppo presto la parte solista centrale che poteva svilupparsi diversamente senza che fosse data la sensazione di incompiuto, ma ciò sembra tirare verso una concezione di riduzione che si ripresenterà durante tutto l’ascolto del disco. Le canzoni vogliono essere asciutte, dirette, semplificate, ancora più che nei dischi passati. ‘Timezone’ sembra una ballata street metal con un assolo acido stradaiolo, anche se troppo breve. Funziona molto bene ‘Gossip’ che ha chiaramente poco di rock, per un cantato pop azzeccatissimo e perfetto per essere un singolo, ma con davvero poco dello spirito rolleggiante se non l’assolo, anche qui striminzito. ‘GASOLINE’ esce un po’ dal loro modo di dipingere, e va a ricordare una verve alla Eurythmics mescolata con la New-Wave anni Ottanta, efficacemente imprimendo una forza scura e martellante che si addice loro e che troppo poche volte viene sfruttata.
‘KOOL KIDS’, con la sua rabbia punk, è uno dei momenti migliori, semplice e ficcante. Tra le migliori stanno anche quelle che ricordano la fluida sinuosità orecchiabile dei Subsonica, ‘MARK CHAPMAN e ‘LA FINE’, due pezzi in italiano, la prima più leggera, la seconda maggiormente cruda, sfornando un azzeccato imperativo dinamico in tutti i due casi, grazie pure alla sei-corde insistita, distorta e densa. Anche ‘Read Your Diary’ poteva essere più brillante, ma alla fine si spende poco, facendosi canzonetta. Tra le ballate, quella che appare più evocativa non è la pur carina ‘The Loneliest’ ma ‘IL DONO DELLA VITA’; la prima è una americanizzazione che ricalca un clichè davvero abusato, la seconda riesce a farsi meno sdolcinata e più atmosferica. Dimenticabile quale riempitivo possiamo vedere la commerciale ma vuota ‘Supermodel’, insieme alla scontata soft-song ‘If not for You’. Purtroppo troviamo la già conosciuta orrenda canzone quale è ‘Mamma mia’, la peggiore che la band abbia mai scritto anche per i canoni del genere seguito. Includerla nell’album abbassa nettamente il livello generale, e guardando al numero dei pezzi totali (17), si può anche fare finta che non esista. Il divertimento un po’ infantile di ‘Bla Bla Bla’ riesce a farsi intrigante per l’arrangiamento potente ma non è certo un pezzo che può andare oltre il folklore.
Il risultato generale funziona, l’energia e le articolazioni scorrono impattanti entrando in testa. Indiscutibile il buon groove che spesso producono, non sostenuto sempre da linee melodiche pregnanti, ma va detto che non si tratta di banalità, quanto talvolta di semplificazioni. La voce è in grado di modularsi con abilità; la sua bravura è sicuramente qualcosa di qualitativo che riesce a definire con cura ciò che canta. Non è una ugola urlante come pare avrebbe detto il famoso violinista Ughi, e quindi non è un tipo di critica che può essere affibbiata a Damiano il quale può non sempre cantare belle canzoni, ma che non usa mai il virtuosismo in acuto. Eppure, nonostante la solita attenta esecuzione vocale, ciò che fa salire la tensione di queste canzoni è la chitarra elettrica, ritmica, e solista quando c’è, che nei casi in cui quest’ultima irrompe viene immesso un senso aggressivo altrimenti un po’ latitante. E in effetti gli assoli di Raggi sono quasi tutti più interessanti di quello dell’ospite Morello (Rage Aginst The Machine). Il basso pesta nudo e crudo varie volte, lasciando che si abbia un rinforzamento del groove in modo bello tenace.
Si percepiscono molte influenze d’altrui provenienza, ma sono sempre gestite con intelligenza, e capacità di visione globale. Di base i White Stripes ci stanno dentro, ma è chiara a volte l’unione della ritmica rock chitarristica con il sentore pop costituito da drumming e melodie, del resto il produttore è Max Martin, lo stesso di Lady Gaga e Katy Perry; questo binomio l’hanno fatto anche altri gruppi rockeggianti con persino risultati peggiori, mentre in questo caso sembra essersi trovata la quadratura del cerchio. Non è un disco piatto grazie ad una variabilità che caratterizza ogni singola traccia. La qualità c’è ma non diventa mai l’apice che alcune song di ‘Teatro d’Ira Vol. I’ avevano regalato. Diciamocelo: è un disco furbissimo, a cominciare dalla copertina a gioco sessuale; ma a ben sentire anche la musica, tutta di pezzi brevi, blandisce con lo stile sbarazzino di chi ha capito perfettamente cosa lasciare fuori e cosa immettere senza confondere troppo le idee. Eppure la maestrìa mainstream riesce a costruire qualcosa che non annoia e che ha un certo sapore accattivante in senso non superficiale. In realtà questa significatività sonora non arriva fino in fondo, evitando di spessorare troppo la parte valoriale; limitandosi cioè a schegge che abbiano una certa comunicabilità interessante, senza però elaborarla troppo.
Alla fine, l’insieme va oltre la sufficienza, ma si pone in mezzo alle due uscite precedenti, rinunciando ad evolversi, decidendo invece di consacrare lo stilema finora utilizzato, sfortunatamente senza raggiungere l’altezza della già citata ‘Coraline’, probabilmente brano irripetibile. La furbizia ha fatto sì che gli ingredienti propri dei Maneskin venissero limati e che la loro parziale originalità si perdesse, facendo rimanere ciò che v’era di derivativo. La forza tonica c’è, ma è messa in campo per ostentare una estetica musicale più che una sostanza della stessa. Alcuni brani sembrano proprio non voler sforzarsi di osare. Forse sono stati frenati, o forse non possono dare più di questo; il disco ha il giusto tiro per i fan e tale riuscita è probabilmente per loro sufficiente; del resto neanche gli altri gruppi italiani come Verdena o Afterhours sono riusciti mai a salire abbastanza di qualità. E’ un sound che non vuole essere cerebrale ma che appare studiato anche se sembra istintivo; e questo, in un certo senso è un merito. Al momento i Maneskin hanno l’essenza di chi gioca fregandosene di dimostrare qualcosa, e così godendosi fino in fondo il loro gioco. I grandi dischi stanno altrove, ma troviamo un buon livello di creatività.
Roberto Sky Latini