Intervista ad Alex CARPANI in occasione dell’uscita del nuovo album ‘MICROCOSM’

A cura di Roberto Sky Latini (18.03.2022)

E’ la seconda volta che incontro online Alex, e nonostante la lunga chiacchierata piena di concetti dell’altra volta, ne sono venuti fuori nuovi e altrettanto interessanti. Chiacchierata che si è svolta in modo pacato ma che ha espresso idee molto chiare e precise.

Nelle note del disco si legge che “Ogni essere umano è un autonomo e inconfondibile microsocsmo”, e di questo tema è fatto il concept dell’album.

Non è una cosa che ho detto io, ma un teologo/filosofo molto famoso, Don Carlo Gnocchi. Con “Autonomo ed inconfondibile” lui intendeva dire che ogni essere umano è unico. E’ come se fosse un mondo compiuto, a sé, che si autoalimenta, che vive, che sperimenta emozioni; che nasce, si sviluppa,cresce, muore. Questo è un concept che ho fatto mio perché ho ritrovato in questa frase un po’ il significato delle cose a cui stavo lavorando.  Volevo fare un disco che parlasse dell’uomo, costruito intorno all’idea dell’uomo, con una descrizione un po’ filosofica, anche visionaria. La cosa che si presta a tante interpretazioni; si può parlare del microcosmo chiuso, cioè dell’uomo che si isola da tutto, dall’esterno, dal mondo. Siamo spesso tutti interconnessi, ma contemporaneamente molto soli. Quindi tanti microcosmi, tutti collegati ma che rimangono microcosmi, non sono dei policosmi. Quindi spesso non sono qualcosa di molto sociale, ma tendono a crearsi delle vite parallele, o delle vite artificiali. Quindi c’era sia il tema delle attualità, delle tecnologie, del nuovo modo di interagire e di comunicare, sia una concezione più tradizionale pensando all’uomo come un piccolo universo, il microcosmo che si contrappone al macrocosmo, ovvero l’intero universo, il creato, e il rapporto che l’uomo ha con la natura, una concezione un po’ medioevale dell’uomo, il quale era al centro di tutto per i pensatori ed i filosofi  del tempo. Quello era un periodo in cui non eravamo ancora arrivati alla rivoluzione scientifica quindi si trattava di teoremi assoluti dove prevaleva la figura dell’uomo al centro di tutto.

Il tema generale è questo, ma i temi delle singole canzoni come sono nati?

Una volta che le canzoni le ho terminate con anche le melodie vocali scritte, avendo in mente questo concept generale del microcosmo, ho cercato di raccontare con ogni brano un breve sprazzo di vita, non volevo essere troppo teorico. Volevo raccontare qualcosa di reale, di concreto, anche se in maniera accennata, tanto con una canzone di quattro/cinque minuti non si può raccontare un romanzo, una storia. Si possono dare delle idee, delle macchie qua e là, soprattutto in una musica come questa che è molto suonata, non tanto cantata. Mi interessava dare delle prospettive di vita quotidiana, possibili vite quotidiane, possibili episodi di vita di ognuno di noi. Per esempio la notte magica, la notte che non sembra avere fine, in cui non si vuole tornare a casa, descritta con  ‘We can’t go Home tonight’. ‘Kiss and Fly’ invece racconta l’attimo in cui sembra passarti avanti l’intera vita, e questo istante brevissimo appare come un tempo dilatato che non sembra fermarsi mai, ma è un punto d’arrivo, un ponte; da quel momento lì due persone si separano e magari si vedranno dopo tanto tempo e però quel momento concentra tutto, intensità, sentimenti, emozioni. Al di là del tema generale volevo dare qualcosa di più umano, di più vissuto. Dopo aver scritto la musica mi sono concentrato su cosa mi trasmettesse ciascun brano. La musica mi ha suggerito i singoli temi.

L’essere umano che emerge da questo tuo lavoro che tipo di uomo è? Si ritrova o si perde?

Credo sia un uomo che si ritrovi. Soprattutto c’è uno sguardo attorno all’uomo, uno sguardo esterno sull’uomo,  a trecentosessanta gradi, a tutto tondo, per vedere com’è fatto, cosa prova, dove guarda, che cosa sente. E’ un uomo che vive di emozioni, e le emozioni esistono da milioni di anni, le emozioni non cambiano, tutti gli uomini di tutte le epoche hanno provato le stesse emozioni; questa è anche la magia del nostro microcosmo. La gioia, la sofferenza, la felicità, il dolore, l’amore, la disperazione, creano un leitmotiv universale che si ripropone in eterno, da sempre e forse per sempre.

Discografia:
Waterline (2007) CypherArts Records (USA)
The Sanctuary (2010) MaRaCash Records (Italia)
4 Destinies (2014) Festival Records (UK)
So Close. So Far (2016) MaRaCash Records (Italia)

Aerostation (2018) Aereostella/Immaginifica Records (Italia)
L’Orizzonte Degli Eventi (2020) Indipendent Artist Records (Italia)
Microcosm (2022) Indipendent Artist Records (Italia)

La cover ‘Starless’, brano del 1974 dei King Crimson, l’hai collocata proprio come primo brano dell’album, come mai? E’ appunto strano per una cover.

Ho deciso di metterla in apertura per due motivi. Il primo per creare subito un contrasto tra un brano conosciuto, molto conosciuto, che apre un discorso, e tutto il resto che viene dopo. Per seconda cosa non volevo che fosse nascosta tra i vari brani del disco, o fosse alla fine come uno si potrebbe immaginare, come se si facesse in chiusura una celebrazione o un tributo. Volevo che fosse parte della narrazione, parte del concept, e non per niente ‘Starless’ significa un “cielo senza le stelle”, quindi parlando di microcosmo e di macrocosmo, è come partire dall’infinitivamente grande, cioè dal macrocosmo, per poi, durante tutto il disco parlare del microcosmo. Quindi se vogliamo è il portone su cui si apre tutta la storia, volevo dargli questo significato.

L’altra nota riguarda il fatto che l’hai più che dimezzata rispetto all’originale che superava i dodici minuti, gestendo solo la parte della linea melodica.

Ho scelto di arrangiare la prima parte del brano perché non ho avuto intenzione, nemmeno per un attimo, di farne una cover. Ne esistono tante versioni. Ho voluto dare una mia visione, una mia prospettiva, cogliendo alcuni elementi essenziali del brano, che sono rispettati, ma cambiando un po’ il vestito del brano, il suo modo di vederlo, il modo di illuminarlo, di metterlo a fuoco. La ritmica è volutamente moderna. La versione originale fu suonata da un quintetto classicamente rock, con strumenti acustici eccetera, non volevo farla suonare ad un altro batterista, ad un altro bassista, ad un altro chitarrista, quindi ho ricreato un mondo diverso, ma lasciando alcuni elementi familiari di quel brano. La voce per esempio non è stata modificata più di tanto. Tutta la parte del tessuto armonico del mellotron, degli archi, non è stata modificata. Le modifiche riguardano l’arrangiamento e gli accompagnamenti in modo da dare una visione del ventunesimo secolo, mia personale. Se avessi messo anche la seconda parte avrei fatto una operazione da un certo punto di vista, filologica, da un altro punto di vista, sperimentale, ma non era quello che volevo, perché questo brano è parte della narrazione. Perché fosse funzionale avevo bisogno della parte “canzone” che ha strofe, inciso, ritornello. La parte che non ho riletto, è la tipica parte di digressione, follia Crimsoniana, stupenda, però fa parte di quel mondo lì, della loro improvvisazione collettiva. Se avessi ripetuto quel momento avrei fatto un falso, una forzatura.

Ma come hai avuto l’idea di utilizzare questo brano?

E’ venuto fuori casualmente. Anzi, quasi ad album terminato. Ho ricevuto l’invito di partecipare ad una raccolta dedicata a John Wetton, con diversi artisti italiani e stranieri che avrebbero arrangiato dei brani o dei King Crimson o degli Asia o degli UK [gruppi in cui egli militò n.d.r.]. E’ stata fatta una estrazione a sorte dei vari pezzi, in maniera che uno non si accaparrasse subito i più famosi, i più facili o quelli che piacciono di più. Io speravo che mi capitasse ‘Starless’ visto che l’ho suonato, l’ho suonato dal vivo con David Cross [violinista dei King Crimson n.d.r.], con Bernardo Lanzetti [cantante della PFM n.d.r.], quindi sono abbastanza affezionato a questo brano. Speravo in cuor mio che succedesse e poi è quello che è successo, la sorte è stata dalla mia parte. Però a quel punto mi son detto perché non metterlo nell’album? Perché non cogliere questa occasione per inserirlo nel discorso che stavo facendo? E alla fine credo che ci stia bene. E’ stato anche il parere dei miei collaboratori e degli addetti ai lavori. Può disorientare, ma il senso ce l’ha.

Tutte queste capacità sono state guidate, si sente, in modo preciso.

E’ una caratteristica del mio modo di lavorare, nel senso che quando scrivo, scrivo tutto. Le parti di batteria con i singoli colpi di piatto, dove e come devono essere. Le linee di basso, le parti di chitarra, voci, archi e l’intero arrangiamento. I musicisti si trovano tutto già scritto. La differenza è che quando loro interpretano ciò che io ho scritto, anche quando non cambiano una nota, si sente che c’è un apporto qualitativo. E’ capitato per esempio col basso di Andrea Torresani, e la cosa che mi ha incuriosito, si vede che forse avevo scritto delle buone basi, è che non ha cambiato una sola nota di quello che avevo scritto, però se io ti faccio sentire quello che ho messo giù io, rispetto al suo risultato, la differenza è enorme. Nel momento in cui un musicista suona interpreta, ci mette il suo pathos, il suo tocco, ci mette il suo feeling, la sua sensibilità, l’esperienza, e molte cose cambiano. In alcuni casi hanno anche aggiunto loro delle cose, e mi ha fatto molto piacere. Ma diciamo che un 80, 85% di cose sono già delineate. E fa piacere anche a loro perché avendo la strada già tracciata si possono concentrare su quei momenti in cui fanno entrare il loro estro senza doversi troppo preoccupare. Questo è il mio modo di lavorare perché sono comunque un compositore, e mi comporto in modo, se vogliamo, tradizionale, scrivendo tutte le parti. Ed è interessante quando inseriscono del loro negli spazi che trovano, spazi che ci sono sempre, che evita che sia una cosa meccanica e priva di pathos. Quando io scrivo un assolo comunque lo faccio pensando che un musicista possa esprimersi. A volte decido di modificare in corso d’opera, per esempio in un brano l’assolo di chitarra, uno dei più lunghi, ripeteva il mio, e lì in quel caso dissi no, fai una cosa tu e sfogati. Lui ha dato un’altra interpretazione a quel passaggio e il pezzo ne ha guadagnato. Poi ci sono altri momenti in cui non transigo perché è chiaro che l’architettura del brano, armonica, ritmica, eccetera, deve star su, e non è casuale, non è che se c’è una nota è messa lì per caso. Ogni tanto va bene cambiare dove si può cambiare, ma ci sono dei punti che sono muri portanti, e lì non è che puoi toccare perché vai a cambiare proprio i connotati. Ma questo non succede mai coi musicisti professionisti perché loro lo sanno benissimo, e lo capiscono prima senza bisogno di dirglielo; loro la musica la sentono. Noi ovviamente stiamo facendo tante parole, stiamo raccontando cos’è la musica, ma la musica non si racconta, per natura si suona e si ascolta. Quando facciamo queste cose non c’è neanche bisogno di parlarsi, i musicisti si intendono fra loro, se le sono studiate, sono già entrati in quel mondo, sono già dentro che danno il loro apporto.

L’ascolto scorre molto fluidamente, ma il lavoro produce subito una prima versione quasi definitiva, o c’è un lavoro importante di modellamento e limatura del materiale?

Questa è una domanda interessante perché si va dentro ai meccanismi. Normalmente sono piuttosto veloce a buttare giù le idee, impiego molto tempo ad affinarle. Mi piace riprendere le cose a distanza di tempo per vedere se mi piacciono ancora, è un test di autovalutazione che faccio sempre. Se sono entusiasta come nel momento in cui le ho scritte, allora vuol dire che sono sulla buona strada; se invece non mi convincono più vuol dire che mi sono lasciato prendere la mano in quel momento. Poi soprattutto lavoro molto di sottrazione, quando ormai il pezzo è scritto ma è da sistemare, tolgo le cose che non sono fondamentali. Tutto quello che nel momento di scrivere ho messo lì perché mi piaceva, con più lucidità valuto se mantiene ancora la sua funzione, la sua utilità. Se togliendo il pezzo, il brano non cambia, allora va tolto, perché non fa altro che appesantirlo. E’ un lavoro che faccio sempre più spesso negli ultimi anni, quello di andare a sfoltire, eppur facendo questo rimane ancora tanta roba dato che come scrittura non sono certo scarno, non sono un minimalista, almeno adesso, un domani chissà; un giorno batterò forse

Il sassofono di Theo Travis suona su tutti i brani?

No, non su tutti i brani, solo su di un paio, che sono ‘We can’t go Home Tonight’ e ‘Redemption’. Due pezzi che ha scelto lui. Io gli ho chiesto di sceglierli, e dopo averli ascoltati ha detto che avrebbe voluto fare questi due. Quindi gli ho lasciato carta bianca. Io avevo già scritto tutte le linee melodiche, le linee di sax, e tutti gli arrangiamenti, però giustamente si è preso qualche libertà, il che a me ha fatto molto piacere, quindi ha interpretato a modo suo alcuni passaggi.

Il sax su questo disco, appare spesso; e tutte le volte che appare, mi colpisce per la sua forte espressività nonostante non venga usato qui tanto come elemento solista, ma più come accompagnamento delle linee cantate, facendolo però in modo molto raffinato, rimanendo nel contesto senza apparire secondario. Fa molto piacere seguirne le evoluzioni.

Direi che hai colto un elemento particolare. In realtà non è che il sassofono ha cercato di aderire alle linee della voce, è stato proprio il contrario; ogni singolo brano aveva già le parti di sax, ed io ho scritto le parti di voce sulle linee di sax. E’ per questo che spesso la voce va all’unisono con lo strumento, non sempre, però sono due voci che dialogano tra di loro. Volevo che ci fosse una sorta di alter-ego, la voce umana e la voce strumentale; e a questa corrispondenza si può dare tanti significati, può essere tante cose: un’eco,  un ricordo, una immagine riflessa. Poi il sax è uno strumento che assomiglia molto alla voce umana, anche come frequenza, come registro, come estensione. Questo disco ha parecchi elementi abbastanza insoliti per me, intanto oltre al sax ci sono tanti strumenti, mentre nel disco precedente erano molto di meno, c’era la batteria, il basso, la virtual guitar, pochissimo di tastiere, c’era la voce. Qui ho molto diversificato, ed è molto più ricco di strumenti e di arrangiamenti. Inoltre ha visto la partecipazione di tanti musicisti, ben nove, non mi è mai capitato di lavorare con così tanta gente. La cosa è nata un po’ cammin facendo, dato che su alcuni brani vedevo che c’erano degli spazi secondo me espressivi adatti a determinati musicisti, quindi ho chiesto loro di intervenire. Così, per esempio, per ‘Kiss and Fly’, quando l’ho scritto e cantato, mi sono detto: “Ma questo è un brano per la voce degli Yes”. Ho cercato Jon Davison, siamo diventati anche amici, è una persona meravigliosa; cantarla gli è venuto naturale perché lui l’ha sentita vicino alle sue corde. Così come vedevo benissimo David Jackson sui brani un pochettino più aggressivi, o con influenze jazz-rock, rispetto a Travis che vedevo meglio su quelli lenti. Ognuno ha dato il meglio nelle proprie cose, come anche David Cross al violino elettrico.

L’album rilassa, è possibile lasciarsi andare, però viene creata tutta una serie di tensioni le quali sono  sviluppate sia attraverso alcune parti elettriche, sia anche negli episodi calmi. Si gioca soprattutto con il senso evocativo delle cose, con molta melodia.

Secondo me le parti sono al 50%. Dal punto di vista musicale l’intenzione mia è sempre quella di giocare sui contrasti. I contrasti per me sono anche le sfumature, avere diversi sapori, diversi gusti, e quindi non faccio uso di eccessiva linearità od omogeneità. Decido sempre di avere una buona scelta di momenti diversi a livello emotivo. Poi tornando al concept che parla delle emozioni umane, era bello parlare anche delle sue contraddizioni, e i contrasti della musica aiutano a sottolineare e quindi avere brani più o meno mossi. Però rispetto a cose che ho fatto in passato c’è una venatura più sul jazz, e questo ammorbidisce un po’, smussa certi angoli. E’ un disco, tra virgolette, più americano, nero, non europeo; ed è un po’ una novità anche questo per me, in quanto mi sono mosso sempre in un ambito più sinfonico, o, nelle ultime cose, in quello Hard-Rock, con delle venature belle decise. Questa volta mi sono lasciato andare  a momenti più dilatati, anche melodici come lo senti tu, e anche gli strumenti lo suggeriscono, perché quando usi il sax, o altro, prendi una certa direzione musicalmente, non vai verso il metal o le cose decisamente sinfoniche.

Parlando delle tastiere, le hai usate in tanti modi diversi e con tanti suoni diversi. C’è del vintage, c’è anche il pianoforte, ma sempre si mantiene una certa modernità.

Cerco un equilibrio, negli ultimi dischi in particolare, ma ho usato le tastiere molto più che in altri lavori, dove talvolta le ho fatte quasi sparire. In passato ho cercato sonorità che superassero anche il concetto di tastiera. Nell’ultimo disco ‘Gli orizzonti degli Eventi’ non c’è una sola nota di pianoforte, ma lì il discorso era diverso. Qui sono rimasto in range abbastanza tradizionali, infatti c’è il pianofore, c’è l’Hammond, ci sono il mellotron e gli archi, e alcuni suoni monofonici che ricordano un pochino il moog, e dei pad, i cosiddetti tappeti, moderni. Non c’è elettronica, soprattutto perché volevo far sentire gli strumenti veri, anche perché con musicisti così sarebbe stato un delitto coprire il tutto con l’elettronica e con il “boom, boom boom” [sorride n.d.r.]. I musicisti sono davvero una line-up formidabile dalla caratura nazionale ed internazionale, a cominciare dalla batteria di Bruno Farinelli, batterista di Elisa, di Lucio Dalla, di Cesare Cremonini, di Andrea Mingardi, e che in questi giorni ha registrato per Mario Biondi; è una garanzia ed è capace di suonare tutto, dal rock al jazz, dal pop al blues. Al basso Andrea Torresani, un grande rockettaro che è l’attuale bassista di Vasco Rossi, un mostro del suo strumento, con una personalità devastante. Tra l’altro  Andrea ha suonato tutto, mi ha mandato le cose e non c’è stata una sola nota da correggere; buona la prima in tutti i brani. Poi Davide Rinaldi che viene dal mondo che tu ami, dal metal, perché suona nei Dark Lunacy, ed ha curato tutte le chitarre tranne quelle in ‘Starless’ che invece è stata suonata da Emiliano Fantuzzi, che è un bravissimo chitarrista anche lui, di Biagio Antonacci, di Neck e Pausini. E naturalmente la compagine degli stranieri,che abbiamo già nominato, i quali sono identificabili nel mondo del Prog. Invece gli italiani presenti non hanno niente a che fare col Prog, ma sono grandi musicisti e quindi per definizione sono universali, non sono etichettabili con un genere. E’ stato estremamente piacevole.

L’album di due anni fa, ‘L’orizzonte degli eventi’, non era in qualche modo minimalista?

Direi più essenziale. Era un disco più nerboruto a livello ritmico e di impatto sonoro; più ruvido da un certo punto di vista, ed era molto incentrato sui testi e sulla parola, però era più essenziale negli elementi che lo componevano. Questo è più ricco, variegato perché c’è un dialogo continuo fra tanti strumenti, c’è la voce solista ma anche la voce degli strumenti. Ci sono dei contrappunti, dei momenti in cui troviamo chiamata e risposta. La scelta sonora parte da un riordino delle idee.

La tua voce, molto musicale, come la inserisci nel contesto?

Fondamentalmente non mi ritengo un cantate, non nasco come cantante. Sono un musicista, un compositore che canta anche. Per me la voce è sempre al servizio del resto, questo vuol dire che non parto con l’idea di fare chissà quali virtuosismi, tecnicismi vocali. Normalmente scrivo le melodie prima di cantarle per farle essere in simbiosi col resto, devono avere una loro funzione ancor prima di scriver le parole. Dopodiché scrivo le parole e canto. In questo disco c’è la particolarità di cui parlavamo prima che la voce ricalca la melodia del sax, quindi non è la voce concepita come una canzone con i testi come invece avveniva ne ‘L’Orizzonte degli Eventi’, dove c’erano proprio strofe, incisi, ritornelli. La voce aveva degli spazi ben precisi. Qui la voce è invece un pochino più imprevedibile, usata quasi più come strumento, ha melodie molto più aperte, più libere; non ha tanti refrain che si ripetono, anche se certo ci sono qua e là ma seguono un loro percorso come fa il sax.

In una parte del cantato di ‘Footprints in the Heart’ percepisco una modalità alla Sting. Questo lavoro cosa ha soddisfatto di te, dell’uomo artista, anche rispetto a ciò che ti ha guidato invece nel disco precedente.

Non l’avevo pensato questo accoppiamento con Sting [sorride n.d.r.]. Per ciò che è stato il mio intento, l’altro disco, ‘L’Orizzonte degli Eventi’, era un lavoro dove io volevo esprimermi per la prima volta nella mia lingua, in italiano, sia pure canzoni rock. Quasi non è prog; potremo definirlo rock italiano, cantautorato rock, con solo qualche inflessione Prog. Nasceva proprio con altre finalità. E lì ho soddisfatto il desiderio di dare molta importanza ai testi e al loro significato. In questo caso è stato, non voglio dire un ritorno perché non avevo fatto un disco di questo tipo nelle mie precedenti esperienze, ma è stato un rientrare in terreni un pochino più familiari, cioè quello del rock progressivo, del rock sinfonico, del classic rock, della fusion in alcuni momenti, alcune influenze jazz-rock. E’ un disco più corale questo, in cui ci sono molti più colori pastello, solari, tenui, poche tinte cupe. Il mio desiderio era fare qualcosa ricco musicalmente collaborando con tanti artisti. Una soddisfazione che mi sono tolto.

E’ rimasto qualcosa fuori? Hai canzoni avanzate da questo progetto?

No, non è rimasto fuori niente. Normalmente non rimane fuori niente dai miei dischi perché il momento selettivo lo faccio nel momento in cui scrivo. Se una cosa non mi convince non la finisco neanche. Quello che porto a termine è sempre qualcosa di cui sono convinto. Mentre faccio qualcosa penso al risultato finale complessivo. Quindi se sto scrivendo un brano in mi maggiore, con un bpm di 140, una velocità medio-alta, subito dopo mi viene da fare un brano in minore, magari un po’ più lento, e l’altro sarà un brano magari di altra tonalità ancora, molto molto veloce, cioè mentre scrivo cerco sempre di variare. Gli ingredienti di partenza che ci metto nel brano successivo li decido prima tenendo a mente le cose che ho appena fatto, guardando l’economia generale di quello che sto facendo, ragionando già in chiave di album. Non faccio tanti brani mettendoli via per poi andarli a scegliere dopo. Normalmente il primo brano è quello interlocutorio, che ti dice cosa stai facendo, potrebbe essere una casualità, che viene bene ma lo lasci lì. Oppure potrebbe essere un brano che appena finito ti suggerisce di farne un altro, e il secondo ti piace e vai al terzo e ti dici: “ma allora sto facendo un album”. E allora dal terzo lavori con quella convinzione e con quella intenzione, quindi tutti i brani successivi li costruisci dovendo fare parte di un equilibrio. In un album inserisci dei picchi di intensità e di ritmo, dei momenti riflessivi anche di riposo per l’orecchio, devi avere una apertura, devi avere una chiusura. Quando inizio un lavoro, verso il secondo brano spesso già mi rendo conto di quello che sto facendo.

Questa tua modalità creativa spiegherebbe allora perché l’album non presenta brani che smorzino la tensione, né all’interno del singolo pezzo parti che perdano mordente. Tra l’altro anche i finali, i fine-brano, tendono ad avere una loro dignità, non usi far sfumare il pezzo, cosa che io non sopporto; di solito mi sembra che lo sfumare una canzone renda mancante la composizione di qualcosa.

E’ una affermazione un po’ forte. Diciamo che il fade-out, il finale a sfumare, è una delle tante opzioni che puoi avere. Non bisogna abusarne perché sennò dà appunto l’impressione di non voler mai concludere un discorso. Se invece viene usato in maniera oculata, quando serve ti può dare l’idea dell’infinito, di qualcosa che non ha la parola “fine”, che idealmente continua. Per quanto mi riguarda il finale è sempre una delle parti più difficili. Forse la parte di ogni brano che mi richiede più tempo. Magari per qualcuno è difficile partire, per me invece è facile partire ma non è semplice finire perché rischi di essere scontato, puoi rovinare il discorso che hai fatto prima. Se hai fortuna puoi trovare un finale che è l’apoteosi dei quello che hai scritto, qualcosa che eleva il tutto di intensità. Il finale è sempre un momento molto delicato in quanto è l’ultima impressione che dai nell’ascolto, e devi starci attento come nei film.

Dopo l’uscita de ‘L’Orizzonte degli Eventi’ hai avuto qualche riscontro? La pubblicazione l’avevi curata autonomamente.

Si, l’avevo pubblicato da solo, per la prima volta non mi sono avvalso di una etichetta ma ho seguito tutto io dall’inizio alla fine. E devo dire che i risultati sono stati apprezzabili; intanto non ci sono state differenze significative con le altre esperienze precedenti. Quello che è mancato purtroppo a causa del covid sono stati i concerti visto che la parte live aiuta il disco sempre tantissimo. Io poi facevo un bel numero di concerti sia in Italia che all’estero e questo avrebbe dato maggiore spinta. Fare tale tipo di test è stata una cosa utile e replico la stessa cosa anche con questo nuovo; l’ho curato io in tutti gli aspetti, con la differenza che adesso sembra si possa ricominciare a fare i concerti; la speranza quindi è quella di poterlo portare in giro, almeno con la band italiana. Con gli stranieri non sarà possibile perché hanno tutti molti impegni in contemporanea, oltre alla questione del brexit che complica molto le cose con la Gran Bretagna, per tasse, permessi, tutto a rendere le cose molto difficili. Il disco lo porterò dal vivo tutto per intero, anche perché mi è sempre interessato dare il senso dell’organicità ad un concerto; poi magari ci sarà anche qualcosa in più preso dagli altri lavori.

Il Progressive che circuito ha in Italia e all’estero?

Se parliamo di artisti ve ne sono molti. Per gli organizzatori il discorso è un altro. Io sono un animale solitario nel senso che non frequento tantissimo gli ambienti, i festival, i concerti, perché non ne ho il tempo e mi dedico molto alle cose che faccio. mi affaccio quando è il momento di prendere dei contatti per propormi. E lo faccio direttamente, me ne occupo io. La cosa che ho notato in questi anni è sicuramente che a livello nazionale tutto è lasciato all’iniziativa degli appassionati e quindi dei volontari che organizzano questi festival, spesso con tanti rischi, ma lo fanno perché è la musica che amano. All’estero la cosa è un pochino più professionale, con associazioni più strutturate, più organizzate, non hai il povero cristo che fa tutto lui, cha va a prendere gli artisti all’aereoporto, li porta in albergo, e poi va in teatro a curare l’allestimento, magari va in biglietteria. All’estero lo staff è sempre di più persone e alcuni aspetti riescono a curarli meglio. Ovviamente è un genere di nicchia che dal punto di vista commerciale mainstream ha dei numeri inesistenti, numeri non molto incoraggianti, quindi può esistere soltanto se qualcuno ha la passione per fare queste cose, altrimenti non avrebbe nessuna possibilità di esistere. Poi c’è un altro problema che è quello dell’invecchiamento del pubblico, non c’è stato molto ricambio negli anni. Io ho visto durante i tanti concerti, sempre le stesse facce con sempre più capelli bianchi. Purtroppo è un circolo vizioso, è un cane che si morde la coda perché da un lato gli organizzatori vogliono andare sul sicuro chiamando i nomi storici per avere maggiori garanzie di partecipazione, questo attira sempre lo stesso tipo di pubblico che vuole vedere le cose che conosce già, vuole rivivere i ricordi della giovinezza, però questo non porta ricambio. Ci vorrebbe un po’ più di coraggio  sulle novità, sulla contemporaneità, sulla commistione dei generi; ricordiamoci che il Progressive è nato come una “progressione in avanti”, una sperimentazione, invece da molti anni mi sembra conservatore. Se ti ricordi bene dagli anni ottanta il genere era completamente sparito dai radar, anche una parte dei novanta; sì c’erano i gruppi del neo-prog, specialmente quello britannico, i vari Cure, Marillion che facevano parlare di sé, però l’onda era già finita. Alla fine dei novanta c’è stato il revival, in cui si sono riscoperti gli anni settanta e da lì poi si è ripreso, ma soprattutto in Italia si è fatto l’errore di risuscitare il passato. Ci sono paesi come la Svezia che è molto fervente e ricca come panorama musicale; sforna gruppi in continuazione, come anche la Germania. In tanti paesi c’è stato il ricambio, e hanno gruppi di prog-contemporaneo che sono di alto livello, che fanno i maggiori festival, che vendono i dischi, e su cui gli organizzatori scommettono e danno fiducia. Se non fai questo sforzo, prima di tutto culturale, di ricerca, sei destinato non a vivere in un mare ma in uno stagno. In un ambiente asfittico molti musicisti perdono fiducia.

I media in questo hanno grossa responsabilità. La funzione dei media dovrebbe essere anche culturale, non solo economica.

E’ tutto lottizzato in Italia, è tutto mercificato a cominciare dalla radio. Per i passaggi radiofonici nei network ci sono i tariffari. Le etichette pagano. Investi e paghi. Il problema è che non c’è nessuna organizzazione della filiera musicale in Italia, è tutto lasciato all’improvvisazione. Io ho suonato in alcune strutture pubbliche della Svezia  che sono mantenute dallo stato. Chi organizza concerti riceve dei fondi dallo stato e deve organizzare concerti di musica nuova, deve aiutare il sistema a crescere. In Francia ci sono delle quote obbligatorie per la musica nazionale, che deve essere trasmessa, deve essere proposta dal vivo, e non può essere soffocata solo dalla musica straniera. Se in Italia il gestore di un locale ha costo di personale al bancone, di SIAE, di pulizie, di service, è chiaro che chiama la Tribute Band, ma il problema è che non dovrebbe essere sulle spalle del gestore del locale. lo stato dovrebbe destinare delle risorse che servono a sostenere il movimento musicale, dando sostegno a chi propone musica nuova originale, non a chi fa Juke-box perché chi fa il tributo, chi fa le cover, non ha bisogno d’aiuto. Servono politiche serie a monte per ripensare tutto il sistema. Quando un gestore ha questa copertura e inizia a proporre la musica, dopo due/tre anni il pubblico comincia a cambiare, a venire, i gruppi iniziano ad avere l’attenzione dei media. Bisogna seminare e poi si raccoglie.

Come vogliamo salutarci? Cosa vorresti aggiungere al tanto già detto?

Spero proprio di poter incontrare il pubblico. Poter ricreare le emozioni dal disco anche dal vivo perché mi interessa vedere la reazione, e capire dalle facce, dagli sguardi, cosa hanno colto, se l’hanno colto. Questo è molto importante per un artista dato che per il resto del tempo tu sei isolato, chiuso a fare le tue cose. Non incontri spesso neanche i musicisti con cui hai fatto il disco perché ormai ognuno registra a casa sua, nei vari studi. Invece quello live è il momento in cui c’è qualcosa di reale, di tangibile, di concreto, quindi speriamo di poterlo fare.

Le parole emerse da questa intervista ci raccontano un disco che in effetti merita, avendo profondità e ricchezza. Le parole di Carpani accostano sempre una analisi freddamente tecnica ad una motivazione artistica emozionale, si sente continuamente una coniugazione tra i due aspetti, ma sarà l’ascolto a farvelo capire meglio.